)*(Stazione Celeste)
FARE AMICIZIA CON LA MORTE
di
realizzato dalla Rete Indra
Indice:
Quando le cose diventano difficili
La mia esperienza allo Zen Hospice di San Francisco
di Elisabeth Manning
Le qualità della meditazione nell'assistenza ai malati terminali
Intervista con Frank Ostaseski
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Frank
Ostaseski è stato il fondatore, nel 1987, dello Zen Hospice Project e oggi ne è
l'insegnante guida.
Attraverso il
suo insegnamento e i suoi scritti ha introdotto migliaia di persone negli Stati
Uniti e in Europa all'esercizio della compassione e della consapevolezza
nell'accompagnamento dei morenti.
Tiene
regolarmente conferenze e ritiri in varie parti del mondo per chi è impegnato
in attività di assistenza e per chi sta affrontando malattie gravi.
Viene
regolarmente in Italia dal 1999.
Questa breve
raccolta di scritti nasce dalla collaborazione iniziata nel 1999 tra la Rete di
Indra e Frank Ostaseski e che da allora lo ha portato in Italia ogni anno per
condurre seminari e ritiri di meditazione sul tema della morte e del morire. Ci
è sembrato utile riunire in un'unica pubblicazione gli articoli già apparsi
sulla rivista Buone notizie, augurandoci in questo modo di favorire la
conoscenza del lavoro che viene svolto allo Zen Hospice di San Francisco.
Con grande
dolcezza e delicatezza, Frank ci aiuta ad aprirci alle nostre paure, ai nostri
dolori: ad incontrarli piuttosto che tentare ciecamente di sopprimerli. E il
senso di pienezza e interezza che deriva da questo processo costituisce il
terreno fertile da dove trae alimento l'empatia, la qualità umana alla base di
ogni reale incontro con l'altro.
Nel suo
insegnamento, la riflessione sulla morte e sul senso di precarietà in cui
viviamo ci aiuta a guardare con occhi diversi ai continui cambiamenti ‑
grandi o piccoli, piacevoli o spiacevoli ‑ che caratterizzano le nostre
vite: ecco che allora davanti a noi inizia a schiudersi una nuova prospettiva
dove la sofferenza non costituisce più l'unico orizzonte.
Stare accanto
a una persona giunta nella fase finale della vita può essere un'esperienza che
spesso sfida le nostre credenze più radicate e ci porta a guardare la relazione
che abbiamo con la nostra morte. t un viaggio fatto di continue scoperte che
richiede coraggio e flessibilità, capacità di affrontare il rischio e di
perdonare.
Il prendersi
cura degli altri crea sempre un beneficio reciproco. In questo processo
iniziamo a capire che nel nutrire gli altri, ci prendiamo cura anche di noi
stessi. Come spesso ama ripetere Frank, dobbiamo includere noi stessi nell'equazione
per poter essere dei veri "compagni compassionevoli". La parola
compassione significa letteralmente: soffrire con gli altri, ed è quel prefisso
'con' che conferisce senso di intimità, di condivisione, di autenticità al
nostro servire.
Nello spirito
di servizio la differenza tra chi riceve e chi invece dà inizia a svanire per
lasciare posto a qualcosa di profondamente diverso, ossia a un senso di
interconnessione capace di superare i muri divísori dietro cui tanto spesso cerchiamo
invano riparo. Iniziamo ad essere meno prigionieri della morsa della paura,
meno reattivi alle minacce da cui ci sentiamo circondati.
E questo è
senza dubbio un grande dono che stiamo facendo anche a noi stessi.
Alcuni anni
fa, mentre nel nostro hospice stavo girando su un fianco un paziente per
lavargli la schiena, lui mi disse, voltando il viso sopra la spalla: "Sai,
non ho mai pensato che fosse cos!".
lo sono molto
sincero con gli altri e così gli ho chiesto: "Come pensavi che
fosse?" e lui mi rispose: "Non ci avevo mai pensato". In quel
momento capii che questa comprensione per lui rappresentava una sofferenza
maggiore del cancro in fase terminale che aveva al polmone.
La morte lo
aveva afferrato di sorpresa.
Per ciascuno
di noi c'è un angolo molto scuro nella nostra mente. E lì, proprio in
quell'angolo, c'è una voce che ci dice: "Un giorno morirò".
Il modo in cui
diamo ascolto o respingiamo questa voce determina come vivremo le nostre vite.
A volte la voce ci parla molto chiaramente, ad esempio quando a stento
sfuggiamo a una disgrazia o quando muore qualcuno che conoscevamo.
Invecchiando i capelli si diradano e diventano grigi e le nostre pance più
molli ed è allora che la voce si fa sentire con più frequenza. Man mano che la
morte si accumula nella nostra vita, la voce ci parla più spesso. Quando muore
qualcuno che amiamo allora ci urla; ci fa sapere che la nostra vita non sarà
mai più la stessa, ma che è stata alterata per sempre.
La morte è la
questione centrale delle nostre vite eppure a mala pena pronunciamo la parola.
In America impieghiamo tutta una serie di eufemismi al posto della parola
'morte'. Le persone non muoiono, se ne vanno o finiscono, come una carta di
credito. Nella vita facciamo piani su tutto: con chi ci sposeremo, dove andremo
in vacanza, quale carriera intraprendere, quanti bambini avere... tutte cose
che potranno non accadere mai. Ma per l'unica cosa certa che ci capiterà non ci
prepariamo. E anch'io non sono poi tanto diverso dagli altri.
Ogni giorno
lavoro con persone che stanno morendo e ancora ci sono dei giorni in cui penso
che a me non capiterà. Ma molto lentamente. nel corso di questi vent'anni, la
morte ha iniziato a richiedere la mia attenzione ed è proprio perché richiama
la nostra attenzione che essa ha una tale grazia e un tale potere. In qualche
modo galvanizza la nostra attenzione nel momento.
Quando parlo
della morte non lo faccio per spaventarci o intristirci ma perché in base alla
mia esperienza, stando con persone che stanno morendo e riflettendo
quotidianamente sulla morte, ho visto che è il migliore dei modi che conosco
per entrare pienamente nella vita. Non conosco nessuna altra cosa che mi mostri
a me stesso con la stessa chiarezza come lo stare accanto a qualcuno che sta
morendo.
Quando
vediamo la morte da vicino, a portata di mano, proprio sulla punta delle dita,
iniziamo a capire qualcosa della vita. Cominciamo ad apprezzare che ogni cosa
cambi: ogni pensiero, ogni relazione, ogni atto d'amore viene e va.
E una volta
compreso questo, non ci attacchiamo più troppo strettamente a ogni cosa. Forse
non ci prendiamo più nemmeno troppo sul serio. E questa qualità coltiva in noi
la capacità di cedere, abbandonare e incoraggia la nostra generosità. Mi sembra
strano, ma è vero, che la riflessione sulla morte ci rende più gentili gli uni
con gli altri.
Quando si
inizia a vedere quanto sia precaria la vita, allora si capisce anche quanto
essa sia preziosa e allora non si vuole sprecare nemmeno un momento. Si
desidera vivere pienamente, si vuole dire agli altri che li amiamo sul serio.
Il tema di
cui volevo parlare stasera è la relazione che si instaura tra chi sta morendo e
chi presta assistenza. Ciò che e importante capire fin da subito è che tutti ne
abbiamo la capacità, ognuno di noi sa come prendersi cura di un altro. Lo
abbiamo fatto per centinaia di anni e ora lo abbiamo solo dimenticato: dobbiamo
ricordarcelo a vicenda. Abbiamo reso talmente per specialisti l'assistenza ai
moribondi che ne abbiamo paura. All'inizio forse è importante comprendere che
morire non è un fatto medico. Dobbiamo impiegare il meglio di ciò che la
medicina ci offre per assistere chi sta per morire, ma non dovremmo permettere
che sia la medicina a guidare l'esperienza. Morire è piuttosto una questione di
rapporti: con noi stessi, con le persone che amiamo e con qualsiasi immagine
che abbiamo della estrema gentilezza. Il nostro compito dunque è di facilitare
queste relazioni e scoprire come ciascuno incontrerà la propria morte. Qual è
il modo unico che ciascuno ha di affrontare questa esperienza?
Sarebbe
davvero bello se avessi una pratica bella e pronta da potersi applicare in ogni
situazione. Mi piacerebbe potervi dare una borsa piena di trucchi da portare
con voi accanto al letto della persona che sta morendo. Temo però che
servirebbe solo a separarvi dalla persona che state assistendo. La morte di
ognuno è completamente unica così come lo è la costellazione di esperienze che
accompagnano la morte. Non esiste un solo modo. Tuttavia penso che ci siano dei
precetti o pratiche che possano essere utili per guidarci mentre stiamo accanto
a una persona che sta per morire.
Recentemente
sono intervenuto a una conferenza molto importante a cui erano presenti molti
dottori famosi. Avevano portato diapositive, video e avevano preparato dei
discorsi scritti molto bene con un punto dopo l'altro in bella successione. Il
mio stile è un po' meno formale, ma ho voluto provare a sfidarmi per vedere se
ero capace di pensare cinque punti importanti. E adesso li voglio condividere
con voi.
Il
primo precetto: accogli tutto, senza respingere nulla.
Che cosa
significa? Come fare? Iniziamo creando un ambiente straordinariamente rícettivo,
un ambiente caratterizzato dalla bellezza. Non solo dalla bellezza fisica, ma
dall'apprezzamento per la bellezza che si incontra in quella circostanza,
l'apprezzamento per il modo in cui ogni individuo attraverserà il processo
della sua morte.
Vi racconto
una storia che aiuta a illustrare questo punto. Le storie sono il metodo
migliore perché possiamo entrarvi ogni volta che ne abbiamo bisogno.
C'era un uomo
che era stato mandato al nostro hospice, veniva dal reparto psichiatrico
dell'ospedale distrettuale e si trovava li perché aveva un cancro al polmone e
voleva uccidersi. Non vedeva come la sua vita avesse alcun valore. Entrai nella
sua stanza e mi sedetti in silenzio accanto a lui. Dopo un mi disse:
"Nessuno si è mai seduto vicino a me in questa stanza per così tanto
tempo". Gli risposi: "Ho molta pratica a stare seduto fermo, che cosa
vorresti? "
«Degli
spaghetti" disse. "Noi facciamo degli spaghetti molto buoni, perché
non vieni a casa nostra e stai con noi?" gli risposi. E' stato questo il
nostro colloquio di ammissione. Il giorno successivo quando poi venne, c'erano
gli spaghetti pronti che lo aspettavano. Bisogna capire, per lui gli spaghetti
erano la casa e il nutrimento in ogni senso. Rimase con noi per tre mesi e il
suo desiderio di uccidersi non spari solo perché gli avevamo dato gli
spaghetti, sebbene li facciamo veramente buoni! In quel periodo era uscito in
America un libro che descriveva i diversi modi per uccidersi. Lo voleva e
allora glielo procurai e glielo lessi.
Accogli
tutto, senza respingere nulla.
Ero
completamente convinto che ciò che quest'uomo tentava di scoprire era dove
trovare il valore della sua vita. Poco prima di morire mi disse: "Frank,
ti voglio ringraziare perché sono più felice ora di quanto non lo sia mai stato
in tutta la mia vita". "Come è possibile, poche settimane fa volevi
ucciderti perché non ce la facevi a camminare nel giardino? " gli chiesi E
lui: "Quello era solo un correre dietro al mio desiderio". "Vuoi
dire che le attività della tua vita non hanno più tanta importanza per
te?" "No, non sono le attività che mi portano gioia, ma l'attenzione
all'attività" e proseguì: "Adesso il mio piacere deriva dal fresco
della brezza e dalla morbidezza delle lenzuola".
Un
cambiamento notevole per quest'uomo che avevo incontrato la prima volta nel
reparto psichiatrico. Accogliere tutto, senza respingere nulla richiede
coraggio. Una ricettività senza paura, dal momento che non abbiamo idea di come
andrà a finire.
Secondo
precetto: porta tutto te stesso in questa esperienza
Significa che
per essere di servizio di un'altra persona dobbiamo mettere anche noi stessi
nell'equazione. Ma prima voglio spiegare la parola 'servizio' perché può
generare molta confusione. Spesso si pensa al servizio come all'essere servili
o spesso lo definiamo come un peso o un obbligo. Quando parlo di servizio,
invece, io intendo qualcosa di simile all'accompagnare un'altra persona. Per
farlo dobbiamo essere disposti a indagare la nostra esperienza. Se diciamo
all'altra persona: "Io capisco" senza averlo fatto, l'altro capirà
che ci stiamo buttando a indovinare. Quando serviamo è il nostro intero essere
a servire. Inclusi i nostri talenti, ma anche le nostre ferite e paure. E'
proprio l'investigazione interiore che crea un ponte di empatia con la persona
di cui ci stiamo prendendo cura.
Avevo un mio
amico, John, che stava morendo di AIDS, gli volevo molto bene, era un mio
carissimo amico. Un giorno, mentre gli stavo vicino, è successo un fenomeno
neurologico molto strano: in quel solo pomeriggio di colpo perse la capacità di
tenere una forchetta, di stare in piedi o di dire qualcosa di comprensibile. E'
stato molto duro. Sto pensando a lui, adesso.
Anche quando
qualcuno muore, il rapporto continua. Fu terribile quella giornata con lui. E'
durata tutta la notte fino alle prime ore del mattino. In un solo pomeriggio la
condizione di john cambiò in modo drammatico: perse la capacità di tenere una
forchetta, di stare in piedi e di formulare delle frasi comprensibili. Mi
spaventai a morte.
Assisterlo
era difficile. Oltre a questo nuovo e strano disastro neurologico, soffriva
anche per dei dolorosissimi tumori anali e una diarrea costante. Mi sembrava di
aver trascorso tutta la giornata spostandolo dalla vasca da bagno al gabinetto
e poi di nuovo alla vasca. Solo tenerlo pulito richiedeva uno sforzo senza
fine. Si dimenava e borbottava parole senza senso, si era fatta notte. Alle tre
del mattino ero esausto. Non avrei fatto altro che dormire, volevo che lui
tornasse a letto e che la mattina mettesse fine a quell'incubo. Tentai di
prendere il controllo della situazione facendo ricorso a ogni trucco che
conoscevo: a momenti lo blandivo, poi ero gentile in modo molto superficiale,
poi diventavo manipolativo, arrivai anche a sgridarlo. Feci di tutto per
riportarlo a letto in modo da potermi riposare.
A un certo
punto, in mezzo a uno degli spostamenti dalla vasca al gabinetto, parlò e dalla
sua mente confusa sentii dirmi queste parole: "Ti stai sforzando
troppo". Aveva ragione, era proprio così, stavo sforzandomi troppo per
mantenere il controllo, respingere la paura ed evitare il dolore di quella
situazione. Mi fermai di colpo, mi sedetti sul water e tutti e due scoppiammo a
piangere. La scena era incredibile: John con i pantaloni del pigiama tirati giù
fino alle ginocchia, io con la carta igienica in mano, le feci erano
dappertutto. Guardando retrospettivamente posso dire che quello è stato
l'incontro più squisito di tutta la nostra relazione. Eravamo là, totalmente
indifesi, insieme. In quel momento non c'era più niente che ci separasse, non
c'erano finzioni e neppure sforzi. Non restammo cosi per sempre, stare in
quello stato ci mostrò cosa fare dopo; solo dopo essere stati disponibili ad
arrivare fino a quel punto abbiamo capito cosa fare in seguito.
Porta tutto te
stesso al capezzale, porta tutto te stesso nell'esperienza.
Terzo
precetto: non aspettare.
Quando
aspettiamo siamo Pieni di aspettative; quando aspettiamo ci sfugge ciò che
questo momento ha da offrirci. Siamo talmente occupati a preoccuparci per ciò che
il futuro ci riserva che perdiamo le opportunità che ci stanno davanti. Se c'è
una persona che amiamo, non aspettiamo per dirglielo. E' un assurdo gioco
d'azzardo aspettare fino al momento della morte per fare questa investigazione
o per esprimere il nostro affetto l'uno per l'altro. Quando lavoro con le
famiglie, incoraggio tutti a parlare direttamente con la persona che sta
morendo. Li incoraggio a essere sinceri, a esprimere il loro amore.
Quarto
precetto: trova un luogo dove riposare in mezzo alle cose.
Spesso
pensiamo al riposo come a qualcosa che faremo quando tutto il resto sarà
finito. Come quando andiamo in vacanza o abbiamo finito di lavorare. Ma nel
lavoro di accompagnamento delle persone che stanno morendo, dobbiamo riuscire a
trovare questo punto di riposo, a volte anche in mezzo al caos. Questo luogo è
sempre lì per noi, è sempre a disposizione. Dobbiamo solo portarvi l'attenzione
e imparare a non ostacolarlo.
Una volta mi
chiamarono a casa perché una donna nel nostro hospice stava per morire. Arrivai
per stare con lei.
Era
un'anziana donna ebrea russa di ottantasei anni, molto dura, senza il minimo
interesse per il buddhismo, Quando entrai nella sua stanza faceva molta
difficoltà a respirare, ansimava. Di solito cerco di intervenire il minimo
possibile e dunque mi sedetti in un angolo della stanza. Le avevamo gia
somministrato tutte le medicine del caso e degli analgesici. Non c'era dolore,
ma sofferenza. Un'infermiera che le sedeva vicino e a un certo punto si rivolse
ad Adele, questo era il nome della donna, dicendole: "Non aver paura, sono
qui io". Al che Adele replicò: "Mi creda, se si trovasse nella mia
situazione anche lei avrebbe paura". Dopo un po' l'assistente disse:
"Mi sembra che abbia freddo, vuole una coperta?" La donna rispose:
"Certo che ho freddo, sono quasi morta!" Davanti a quella situazione
feci due osservazioni: la prima era che Adele voleva qualcuno che fosse molto
diretto con lei, non voleva sentire discorsi new‑age sulla morte. La
seconda era che la sua sofferenza si manifestava nel respiro. Mi avvicinai e le
chiesi: "Vorresti lottare un po' meno? " " Sì ". Allora
proseguii: " Ho visto che c'e un piccolo posto proprio li, al termine
dell'espirazione, una piccola pausa. Dimmi se puoi, anche solo per un attimo,
portare l'attenzione proprio in quel punto". Ricordate? La donna non aveva
mai avuto il minimo interesse per il buddhismo o la meditazione o cose del
genere, ma aveva una forte motivazione a liberarsi dalla sua sofferenza. Così
riuscì a portare l'attenzione in quel posto di riposo, quel brevissimo momento
alla fine dell'espirazione e un po' alla volta vidi svanire la paura dal suo
viso. Aveva trovato un luogo di riposo nel mezzo delle cose. Quel momento di
riposo che è sempre li, a disposizione di ciascuno; si presenta in modi diversi
per ogni individuo. Dal punto di vista pratico potremmo dire che è il luogo che
si trova tra due respiri. Dopo pochi altri respiri mori in tutta tranquillità.
Trova un
luogo di riposo nel mezzo delle cose, scoprì come si presenta nella tua vita.
Quinto
precetto: coltiva "la mente che non sa".
Si tratta di un'espressíone molto difficile da capire, non sono ancora sicuro di averla capita. Nella pratica zen esiste l'espressione "nel non sapere c'è la maggiore intimità". Ci si riferisce al fatto che quando non sappiamo dobbiamo stare molto vicini all'esperienza e in questo modo si crea un'intimità con l'esperienza. E' esattamente come entrare in una grotta buia senza nessuna luce. Non conoscendo la strada, la seguiremo a tentoni lungo le pareti, dovremo restare molto vicini all'esperienza.
Un mio amico
una volta ha detto: "E' come usare il metodo Braille, troviamo la strada
attraverso l'esperienza". Quando non sappiamo abbiamo la possibilità di
vedere molto di più del quadro. Se entriamo nella stanza di una persona che sta
morendo pieni del nostro conoscere, vedremo solo una parte limitata delle
possibilità. 1 pensieri stessi che abbiamo sull'esperienza ci limitano e ci
allontanano dall'esperienza e dalla persona che stiamo incontrando. Per questo
diciamo che "nel non conoscere c'è la maggiore intimità". Se
paragoniamo ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo, dobbiamo ammettere che
ciò che non sappiamo e molto più vasto. Perciò dobbiamo essere disposti ad
accoglierlo.
Un'ultima
storia. Un altro mio amico ormai prossimo alla fine aveva grosse difficoltà a
respirare, la testa era reclinata all'indietro e la gola molto tesa: non sapevo
che cosa fare. Un insegnante spirituale molto rinomato, che tutti conoscete ma
di cui non voglio dire il nome, lo venne a trovare e mi disse: "Devi fare
così: toccagli la cima della testa: il suo spirito sta tentando di lasciare il
corpo e se tu farai come ti dico lo incoraggerai ad andare via". Feci come
mi aveva detto ma non successe nulla. Più tardi venne pure il medico che disse:
"Bisogna dargli più morfina». Lo feci ma non successe nulla. Arrivò poi un
famoso manipolatore del corpo che mi mostrò dei punti speciali sui piedi del
mio amico che avrei dovuto toccare. Feci come aveva detto ma non successe nulla.
Tutte queste persone avevano delle idee, erano anche delle buone idee, ma non
erano l'intero quadro.
Ricordo che
io sentivo solo che sarei dovuto andargli più vicino, così mi sdraiai accanto a
lui nel letto e cominciai a carezzargli la gola e poi il cuore e un po' alla
volta la testa tornò in avanti e il respiro divenne più rilassato. Ancora non
so se feci la cosa giusta, forse gli ho impedito di fare chissà quale
esperienza spirituale, non lo so. Credo però che per consentire a ciascuno di
noi di essere libero, i nostri cuori debbano essere morbidi.
Trascrizione del discorso tenuto a Venezia il
18/6/99
Da: «La rete di Indra buone notizie",
anno III, n.2, 1999
Allo Zen
Hospice diciamo che non c'è vero servizio se non sono servite entrambe le
persone. Quando lavoro davvero con qualcuno che sta morendo, lavoro anche su me
stesso. Osservo la mente e mi rendo conto di come il cuore si apre e si chiude.
Sono consapevole del mio stesso dolore e della paura di morire. In questo modo
inizio a capire che la sofferenza dell'altra persona e anche la mia.
Al Centro Zen
quando si insedia un nuovo abate si svolge una cerimonia ed è un rituale molto
bello, che coinvolge l'intera comunità. Durante una delle ultime cerimonie, uno
studente chiese: "Che cosa mi può insegnare la pratica spirituale nel
servizio agli altri?" e, in tipico modo Zen, l'abate rispose: "Quali
altri? Servi te stesso". Lo studente insistette: "Come faccio a
sapere come servire me stesso?" e, naturalmente, l'abate rispose:
"Prenditi cura degli altri".
Allo Zen
Hospice, lavoriamo quotidianamente con persone che stanno per morire. A volte
sono persone molto dure, che hanno vissuto per strada o ai margini della
società, che non sopportano il loro senso di impotenza, che hanno perso ogni
speranza. Ci sono altri che sono consumati dalla paura. Talvolta si girano
verso il muro e si rinchiudono in se stessi, senza mai più tornare indietro.II
buddismo non interessa assolutamente nulla alla maggior parte di loro. Persone
di questo genere non si fidano facilmente e se voglio essere di qualche utilità
dovrò essere estremamente chiaro e onesto circa la mia intenzione, in caso
contrario non gli ci vorrà molto per indovinare la mia ipocrisia e il mio
sentimentalismo. Molte di queste persone sbocciano ed è un grande dono stare
insieme a loro. Sono capaci di incredibili riconciliazioni con le loro famiglie
trovando la gentilezza e l'accettazione che hanno cercato durante tutta la loro
vita. Può essere un'esperienza straordinaria.
Non faccio questo
lavoro perché a volte ottengo un successo. Rincorrere tali ricompense conduce
all'esaurimento e dunque alla manipolazione, perché continueremmo a cercare di
creare le condizioni per ottenere i risultati attesi, invece di fronteggiare la
situazione così come è. Faccio questo lavoro perché lo amo e perché servo anche
me stesso. Il prendersi cura degli altri crea sempre un beneficio reciproco. In
questo processo noi iniziamo a capire che nel nutrire gli altri, ci prendiamo
cura anche di noi stessi. Diventiamo quello che io chiamo: "compagni
compassionevoli".
La parola
compassione significa letteralmente: soffrire con gli altri, ed è quella
congiunzione nel mezzo della definizione ‑ 'con' ‑ che è così
importante. Implica intimità e deriva dal senso di appartenenza. Inoltre, un
compagno è naturalmente uno che viaggia con un altro; quindi in questa
relazione non c'è una guida, non c'è né guaritore né guarito. Come il maestro
Zen Reb Anderson dice: "Noi stiamo semplicemente camminando insieme
attraverso nascita e morte, tenendoci per mano". E questo è un approccio
radicalmente differente dall'assistenza perché riconosce esplicitamente il dono
che una persona morente può offrire a colui che l'assiste. Nello Zen, c'è una
pratica chiamata dokusan. t una sorta di colloquio con l'insegnante. Allo
studente viene detto di aspettare fuori dalla e di concentrare tutta la propria
attenzione sul momento presente. Egli non ha alcuna idea di ciò che lo aspetta
dall'altra parte della porta, nessuna idea di ciò che il maestro potrà
chiedergli. Quindi lo studente dovrà essere aperto, flessibile, ed avere la
volontà di entrare libero da aspettative. Entrando nella stanza di un paziente
morente è come fare dokusan.
Troppo spesso
accade che nel prenderci cura non osserviamo veramente per vedere quel che
serve, ma cerchiamo di confermare una identità. Chiamo questa "a malattia
dell'aiutante", che ha un carattere molto più epidemico dell'AIDS o del
cancro. Sto parlando dei vari modi che mettiamo in pratica per tenerci distaccati
dalla sofferenza degli altri. Ci teniamo distanti con la pietà, la paura, il
calore professionale, persino con dei gesti caritatevoli. L’attaccamento al
ruolo dell'aiutante è molto vecchio per molti di noi, e se non stiamo veramente
attenti, se non siamo consapevoli, questa identità imprigionerà sia noi che
quelli che serviamo. Perché, se io farò l'aiutante, qualcun altro dovrà fare
quello bisognoso di aiuto.
Una mia buona
amica, Rachel Remen, autrice di Kitchen Table Wisdom (La saggezza del tavolo di
cucina), ha scritto su questo tipo di aiuto e penso che sia una delle più belle
descrizioni del servizio che io conosca. Parafrasandola, potremmo dire che
servire non è la stessa cosa di aiutare.
Aiutare è
basato sulla ineguaglianza, non è un rapporto tra uguali. Quando si aiuta, si
usa la propria forza per aiutare qualcuno che ne ha meno. E’un rapporto
"uno-sopra, uno-sotto" e la gente sente questa disuguaglianza. Quando
aiutiamo poi, a volte senza volerlo, prendiamo di più di quello che diamo,
diminuendo così negli altri il senso del valore e della stima in loro stessi.
Quando aiuto, sono molto consapevole della mia forza, anche se in realtà non
serviamo solo con la forza; serviamo con tutti noi stessi e attingiamo a tutte
le nostre esperienze. Le nostre ferite servono, i nostri limiti servono, anche
le nostre ombre servono. La nostra interezza serve l'interezza dell'altro e
l'interezza nella vita. Aiutare è come contrarre un debito. Quando aiuti
qualcuno, questi ti deve qualcosa, mentre il servizio e reciproco. Quando aiuto
ho un senso di soddisfazione, ma quando servo ho un senso di gratitudine.
Servire è
anche diverso da aggiustare. Quando aggiustiamo, vediamo la persona come rotta.
Aggiustare è un tipo di giudizio che ci separa dagli altri e crea distanza.
Quindi fondamentalmente vediamo che aiutare, aggiustare e servire sono modi
diversi di vedere la vita. Quando aiuti, vedi la vita come debole. Quando
aggiusti, la vedi come rotta. Quando servi, vedi la vita come un intero e chi
serve sa che si viene usati da qualcosa di più grande di se stessi.
Una sera Tom,
uno dei volontari, si stava occupando di un paziente con l'AIDS. J.D. era ormai
molto debole, tanto da far fatica a stare in piedi e aveva bisogno di aiuto per
svestirsi e altre cose. Proprio quella sera, Tom stava aiutando J.D. a muoversi
verso la comoda, quando le gambe di J.D. non ressero e lui cadde. Ci fu un caos
tremendo. I pantaloni del pigiama di J.D. gli arrivarono alle anche, la comoda
si capovolse. Un pasticcio terribile. J.D. stava bene, ma Tom era distrutto.
Comunque Tom nervosamente si arrangiò e rimise J.D. sul letto e poi mi chiamò e
disse: «Bisogna che rivediamo insieme le tecniche su come spostare qualcuno dal
letto alla comoda". Ma io gli dissi: "Tom, fai semplicemente questo:
la prossima volta che sposterai J.D., controlla come hai la pancia e vedi se è
morbida". Lui replicò: «No, no, non la roba buddhista. Voglio sapere le
procedure infermieristiche, come muovo il suo ginocchio." Ma io dissi:
"Tom, controllati semplicemente la pancia e chiamami dopo".
Poco tempo
dopo mi chiamò e disse: ''Frank, è stato sorprendente. Stavo spostando J.D. e
la mia pancia era dura come una roccia. Mi sono reso conto che avevo timore e
così mi sono fermato: ho respirato alcune volta, ho ammorbidito la pancia e la
cosa che è successa dopo è che mi sono trovato J.D. nelle braccia come
un'amante o un bambino. Non è stato per niente un problema".
Quando il
cuore è aperto e la mente è calma, quando l'attenzione è totalmente nel momento
presente, ecco che il mondo non è più diviso e sappiamo cosa fare.Se indaghiamo
al cuore del servizio vediamo che c'è uno schema che si ripete:il senso di
separatezza è il comun denominatore di tutte le abitudini che ci ostacolano nel
nostro lavoro mentre l'esperienza della unità è sempre presente in ogni gesto o
momento che sembrano andare nella direzione del servizio. Einstein ha parlato
di questo e Sogyal Rinpoche lo cita nel suo "Libro tibetano del vivere e
del morire": "Ogni essere umano fa parte di un insieme che noi
chiamiamo Universo, una parte limitata nel tempo e nello spazio. L'uomo vive se
stesso, i suoi pensieri e sentimenti come qualcosa di separato da tutto il
resto, in una specie di illusione ottica della sua coscienza. L'illusione
costituisce una specie di prigione che ci limita ai nostri desideri personali e
all'affetto per le poche persone più vicine a noí.11 nostro compito deve essere
quello di liberarci da questa prigione allargando il nostro cerchio di
compassione fino ad abbracciare tutte le creature viventi e l'intera natura
nella sua bellezza ".Quando il cuore non è più diviso, tutto ciò che
incontriamo diventa la nostra pratica ed ecco che allora il servizio è uno
scambio sacro, proprio come inspirare ed espirare. Il sostegno fisico e
spirituale che riceviamo nel mondo equivale all'inspirazione. Poi, poiché tutti
abbiamo dei doni da offrire, una parte della nostra felicità nel mondo consiste
nel restituire qualcosa e questo processo equivale all'espirazione. Non
ostacoliamo quindi la saggezza e la compassione innate e permettiamo alla
nostra innata capacità di vedere ciò di cui ha bisogno l'altro mettendoci al
servizio sia dei morenti che dei vivi. Ci sono innumerevoli modi di esprimere
la compassione attraverso il servizio: modi per servire il corpo, modi per
servire il cuore e la mente e modi per servire lo spirito.
Il primo modo
per esprimere la compassione è occuparci del corpo con il dono del toccare. Il
contatto è la più antica forma di guarigione ed è uno dei bisogni basilari
dell'essere umano. Una notte, mi ricordo di avere visto Ray avvicinare una
sedia ai piedi del letto di ospedale di Mark e sistemarsi i piedi a terra. Tirò
su la testa, leggermente stirandosi la schiena e così poté sedere completamente
fermo. C'erano altri quattro visitatori che chiacchieravano riempiendo la
stanza con l'intenzione di tirare su il morale di Mark, il quale, dopo aver
combattuto l'AIDS per anni, ora era fragile come un uccellino. L'intenzione era
buona, ma Mark sembrava annegare in mezzo a tutti quegli stimoli. Ray annuì a
Mark con un leggero sorriso ed il gesto fu qualcosa a metà tra: "Mi fa
piacere vederti ancora" e un inchino di rispetto.
Esprimeva
attenzione e chiedeva il permesso di toccare. Le mani di Ray si fecero strada
sotto le lenzuola di Mark fino ai piedi. Non potevo vedere alcun movimento e se
pure c'era, doveva essere molto delicato. Non so se stesse premendo su alcuni
punti speciali, ma sicuramente non c'erano misteri: ciò che importava era il
profondo contatto stabilito attraverso il tatto, due uomini che entravano in un
rifugio silenzioso insieme. Per mezz'ora Ray ascoltò, rassicurando, esplorando,
rispondendo a Mark, senza che una singola parola fosse pronunciata. Il
chiacchiericcio nella stanza ancora durava, ma ora Mark stava galleggiando,
invece di annegare. Quando il massaggio ai piedi fini, Ray tolse la sua mano
piano e con attenzione, si sedette di nuovo sulla sedia stando fermo. Allora
Mark gli mandò un bacio, poi chiuse gli occhi e affondò nel cuscino a riposare.
La gente
viene toccata continuamente negli ospedali: si viene girati nel letto, viene
preso il polso, prelevato il sangue. Le infermiere e i dottori fanno iniezioni,
posizionano tubicini e mettono le flebo, fanno tutti i test possibili. Tutto
questo è toccare, ma quante volte, mi chiedo, questo toccare è vissuto come
curativo? 1 morenti sono estremamente vulnerabili. Si sentono fisicamente
deboli, emotivamente non protetti, soli, a volte molto confusi. Se sono in
ospedale, probabilmente è molto dura per loro: può essere vissuto come un luogo
poco familiare e con un eccesso di stimoli. Il dolore poi è quasi universale.
Il corpo non funziona bene e a causa di ciò possono trovarsi a dipendere dagli
altri. E questo può far nascere la sensazione di essere impotenti. A completare
il quadro, si trovano a dover fare i conti anche con i tabù sociali sulla loro
malattia e su come è cambiato il loro corpo. Alcuni mi hanno parlato di una
sensazione di tradimento da parte del corpo, mi hanno detto di sentirsi
detestabili e intoccabili.
Il toccare
inizia nel momento in cui si entra nella stanza. Prima tocchiamo con gli occhi,
quando osserviamo l'ambiente per stabilire un contatto diretto con la persona a
letto. Questo atto può esprimere la nostra presenza o manifestare il nostro
disagio. Anche l'ascolto è un modo per toccare: può essere ricettivo, aperto,
incoraggiante oppure selettivo e guidato dalle aspettative. La nostra voce
tocca. Possiamo parlare lentamente e amabilmente, consapevoli del tono della
voce per esprimere cura e conforto. Oppure può essere brusco e affrettato, a
significare che abbiamo cose più importanti da seguire altrove. Non è
necessario fare un corso di massaggio per stabilire un contatto amorevole con
un altro essere umano; basta attingere alla nostra innata tenerezza. Non è la
tecnica che conta, nemmeno dove mettiamo le mani. E’ la qualità del cuore con
la quale tocchiamo e la volontà di essere veramente presenti.
Mia nonna
faceva dei meravigliosi massaggi alla testa. Le sue mani erano piene di
gentilezza. Mi dava la sensazione che avesse tutto il tempo di questa terra e
che non ci fosse nulla più importante di me. Tutti abbiamo bisogno di toccare
ed essere toccati e quelli che stanno morendo non sono un'eccezione.
erto, bisogna
andarci piano all'inízio, procedendo con calma e rimanendo ricettivi,
accogliendo anche la reazione che si ottiene mentre lo si fa. Chiaro che c'è un
rischio nel fare questo. Possiamo sentirci a disagio o essere persino
rifiutati. Ma qual è l'alternativa a non toccare? La solitudine che regna nelle
case di cura del nostro paese è una conseguenza di questa strategia.
Nell'offrire
delle cure, esistono infinite possibilità per un toccare che esprima
compassione e rassicurazione, oltre al valore del rapporto con la persona
malata. Non ci vuole più tempo. Apporre gentilmente la mano sul petto di una
persona tesa con problemi di respirazione, può aprire una opportunità di calma.
Quando prendiamo il polso dobbiamo stare li per almeno 30 secondi. Perché non
usare il tempo per stabilire un contatto umano onesto? Girare qualcuno nel letto,
può darci l'opportunità di strofinare la schiena e applicare una lozione. Una
pezza fredda sulla fronte di qualcuno che sta sudando può essere un gesto di
gentilezza che può veramente aiutare. A volte tenere la mano può bastare.
In fin dei
conti, è la consapevolezza che fa guarire. Il toccare è solo lo strumento. Se
portiamo la consapevolezza al momento del contatto, qualsiasi forma di tatto
può trasformare ed ognuno di noi è capace di stabilire un contatto simile.
Il secondo
modo per esprimere compassione è prestare attenzione al cuore e alla mente
attraverso il dono dell'ascolto. Spesso penso alla pratica di meditazione come
un modo per imparare ad ascoltarci molto intimamente. Diciamo che in
meditazione coltiviamo la mente che ascolta, come potremo dire H cuore che
ascolta. Penso che questo tipo di pratica ci prepari bene per stare con persone
che hanno veramente bisogno di essere ascoltate.
Steve stava
vivendo pienamente gli ultimi giorni della sua vita. Aveva combattuto l'AIDS
per circa 10 anni e a quel tempo stava rendendosi conto delle sue energie
limitate. Però, nonostante le condizioni di estrema debolezza e inabilità,
trasudava amore, offrendolo liberamente a chiunque entrasse nella sua stanza.
Anche Rick aveva l'AIDS e viveva nell'hospice. Un colpo gli aveva paralizzato
la parte destra e l'afasia gli rendeva la parola confusa e difficoltosa e
questo lo faceva sentire isolato e non compreso. Una parte di Rick anelava che
qualcuno potesse capire cosa stava attraversando. Dissi a Rick che Steven era
vicino alla fine della sua vita e così Rick decise di andare a dargli il suo
ultimo saluto. Rimasi a guardare un momento mentre Rick entrava e si sedeva sul
bordo del letto e poi per circa 20 minuti tutti e due rimasero in un profondo
scambio silenzioso. Non venne pronunciata nessuna parola. I loro occhi non si
lasciarono per neanche un attimo e c'era una straordinaria intimità. Alla fine,
riconoscendo la qualità della presenza che avevano condiviso, Steven disse
semplicemente: "Grazie, è stato meraviglioso" e Rick concordò
annuendo. Poi si abbracciarono e Rick ritornò in camera sua. Ho avuto
l'impressione che molte delle cose che Rick aveva da dire, siano state
ascoltate quel pomeriggio. L'ascolto è tutto fatto di dare. Guarisce attraverso
la forza della generosità. t un dono a mani aperte che non richiede nulla in
cambio. Non riesco ad immaginare un dono più prezioso per qualcuno che sta
morendo.
Per ascoltare
viene richiesto di diventare vuoti, disponibili a ricevere, senza aspettative o
giudizi, a essere sorpresi. Un buon ascolto richiede sia l'attenzione rivolta
verso l'altra persona sia verso la nostra vita interiore. t necessario porre la
massima attenzione alle nostre sensazioni, sentimenti e intuizioni. Perché è
questo ciò che ci permette di risuonare con un'altra persona.
Lo psicologo
Carl Rogers diede una magnifica descrizione dell'empatia, dicendo:
"Empatia significa entrare nel campo percettivo privato di un'altra
persona sentendosi pienamente a casa propria. Significa vivere temporaneamente
la sua vita e muoversi dentro delicatamente, senza giudizi. Comunicare ciò che
senti nel suo mondo man mano che guardi con occhi freschi e senza paura.
Significa controllare spesso con l'altro l'accuratezza del tuo sentire e farsi
guidare dalle reazioni che ti tornano indietro. Stare con qualcuno in questo
modo significa che devi lasciare da parte le tue visioni e i valori che valgono
per te, in modo da entrare nel mondo dell'altro libero da pregiudizi. In un
certo senso questo significa che lasci da parte te stesso e questo può essere
fatto solo da una persona che si sente sicura di se stesso e non teme di
perdersi in ciò che può diventare il mondo strano e bizzarro di un altro,
perché sa che potrà facilmente ritornare al suo mondo qualora lo
desideri".
Non è bello:
"Muoversi nel suo mondo, delicatamente, senza giudizio, guardando con
occhi freschi e senza paura"? Riuscite a immaginare che cosa si prova ad
avere qualcuno che ti ascolta in questo modo?
L'ascolto
empatico richiede la nostra completa presenza. Ciò significa che i nostri corpi
e le nostre menti devono entrare nella stanza allo stesso tempo. Può sembrare
ovvio, ma non si verifica sempre. Troppo spesso lasciamo la mente sull'ultima
attività che stavamo facendo oppure entriamo nella stanza così occupati dalle
nostre idee, aspettative e immaginazioni da non lasciare spazio a nient'altro.
Quando ti
siedi di fianco al letto, fai un profondo respiro. Lascia andare le attività
della giornata e le tue aspettative. Arriva Li, vedi cosa senti.
Semplicemente
vivi. Non c'è niente di speciale da fare. Osserva la tendenza a voler far
succedere qualcosa. Questo può indurre un sacco di pressione sull'ammalato.
Tieni solo compagnia e rimani attento. Ho guardato la TV per ore con pazienti,
immaginando di non essere di alcun aiuto. Poi, appena mi alzavo per andarmene,
la persona a letto mi dice va: "Grazie. t stato carino stare con qualcuno
che non mi ha trattato come un malato".
A volte
l'apertura accade con una modalità assolutamente inaspettata. C'era un ragazzo
all’Hospice, di nome Jackie, eroinomane da 20 anni. Un giorno stavamo seduti
nel giardino interno a chiacchierare e siamo rimasti un po' insieme. A un certo
punto gli dissi: "Ehi, Jackie, ecco che ti trovi in un hospice buddhista.
Pensi che rinascerai?" Disse: «Non so". "Forse rinascerai, forse
ritornerai come mucca" proseguii io e lui mi rispose: "Non voglio
ritornare come una dannata mucca". "Allora come cosa vuoi
ritornare?" Lui disse: "Jackie" "Perché vuoi tornare come
Jackie? Sei già stato Jackie. Perché non provi con qualcos'altro?" “No,
tornerò come Jackie" Gli chiesi: "Perché?" "Perché la
prossima volta lo farò bene". Vedete, in quel momento siamo entrati in
nuovi territori. Jackie si mise a parlare della sua vita e di cosa contava di
più per lui.
Prestate solo
attenzione. Non si sa mai quando questi discorsi possono saltare fuori.
Il terzo modo
che abbiamo per esprimere la nostra compassione è prenderci cura dello spirito
con il dono della consapevolezza. Nel processo del morire, il sostegno
spirituale è altrettanto importante quanto le cure mediche, ma solo raramente
lo porgiamo in modo che sia realmente significativo. E dunque molta gente,
invece che in pace, muore nello stress e nella paura. Ma possiamo farci
qualcosa. Che cos'è il sostegno spirituale? Innanzitutto vuol dire portare
testimonianza. Ossia non girarsi dall'altra parte quando le cose diventano
difficili, ma restare presenti nel territorio del mistero e delle domande senza
risposta. E' aiutare le persone a scoprire la propria verità, anche quando non
ci troviamo d'accordo con essa.
Talvolta
significa chiamare un prete per somministrare l'estrema unzione o mettere uno
scialle di preghiera sulle spalle di una persona morente, oppure potrebbe essere
recitare delle preghiere o meditare insieme, ovvero scrivere una lettera che
porti alla riconciliazione. Nella mia esperienza, il sostegno spirituale
generalmente non prevede discussioni esistenziali o pratiche esoteriche, non
riguarda il fuggire da questa vita, bensì l'affrontarla direttamente. Si tratta
di essere consapevoli delle opportunità, qui ed ora, di esprimere amore e
compassione. Per essere un vero sostegno dobbiamo avere la volontà di uscire
dalla nostra personalità ben difesa o dai sistemi di credenze e rinunciare al
nostro bisogno di controllo. Allora in questa resa si apre una porta e
scopriamo con la persona morente uno spazio che è più grande della nostra vita,
ma che la include. Ciò permette di apprezzare meglio la sacralità che sta nelle
cose e nelle attività ordinarie. Il nostro paradiso, la nostra illuminazione è
qui e ora e noi possiamo aiutare le persone ad assaporare questa esperienza
prima di morire.
t importante
ricordare nell'offrire sostegno spirituale che anche se non c'è alcuna
possibilità di cura e sempre possibile guarire. t importante capire la
distinzione. Guarire ‑ healing ‑ deriva dalla stessa radice di
interezza ‑wholeness Interezza
significa non rotto o danneggiato. Nel guarire c'è la riscoperta della nostra
intrinseca interezza.
Vorrei
riprendere alcuni brani di una lettera scritta dalla moglie di uno dei
residenti del nostro hospice in cui parla di come il sostegno spirituale
incoraggi il ritorno all'interezza.
" ... A
causa della lunga battaglia con il cancro, mio marito Robert era distrutto
nella mente, nel corpo e nello spirito. Mi disse di avere perso tutto: la fede,
la pace della mente e tutto il suo spirito. Si trovava in uno stato di agonia
spirituale e intellettuale. Ma appena entrò nella sua stanza allo Zen Hospice,
iniziò una sorta di guarigione. Si voltò verso di me e disse: 'Mi sembra di
essere in un santuario. I volontari e il personale erano così gentili. Ciascuno
ci portava qualcosa di diverso e ciascuno sembrava in grado di comunicare il
suo amore senza alcuno sforzo. Era come essere avvolti in un bozzolo dove
ricevevamo calore e sostegno, dove non avevamo più bisogno di lottare.
Osservavo Robert che se ne andava fisicamente, ma vedevo anche la guarigione
emotiva e spirituale che era in corso. Trovarsi con voi permise a Robert di
ritornare a essere integro prima di morire. Permise anche a me di capire che
anche in un grande dolore si può sperimentare gioia e gratitudine, perché vidi
che la persona che amavo più di tutti al mondo aveva trovato la pace e il
completamento alla fine della sua vita."
Per essere
utile, il sostegno spirituale deve occuparsi di questioni molto concrete come
la paura, il significato e gli scopi, ma anche lasciare spazio al mistero che
caratterizza il morire. Ci sono innumerevoli modi per offrire sostegno
spirituale alle persone durante le ultime settimane della loro vita: pratiche
di compassione come il tonglen, pratiche di consapevolezza sulla morte,
meditazioni di gentilezza amorevole, preghiere contemplative, pratiche di concentrazione
che stabilizzano la mente, rituali che pongono l'enfasi sull'imminenza della
morte. Tutto ciò nelle mani di un praticante abile può essere un servizio
impagabile per qualcuno che sta morendo. In ogni caso, per la persona che
aiuta, la pratica essenziale è l'impegno a mantenere la consapevolezza del
corpo, della mente e del cuore. In questo modo si contribuisce a mantenere un
ambiente calmo e ricettivo intorno alla persona che sta morendo. In un certo
senso, gli prestiamo la stabilità della nostra mente, allo stesso modo come
prestiamo la forza del nostro corpo nelle attività di assistenza. Inoltre la
nostra calma serve anche come modello per gli altri.
Il mio
suggerimento è di incominciare con lo sviluppare una pratica di consapevolezza
di base. Lavorare con brevi istruzioni di meditazione, leggere libri che
ispirino. Cercare sostegno per sviluppare la pratica contemplativa presso un
insegnante nella tua zona. Una volta che avrete un po' di esperienza nella
pratica della consapevolezza e nella preghiera contemplativa, allora vedrete
che queste qualità troveranno naturalmente espressione nel vostro lavoro di
assistenza. Vorrei solo condividere due pratiche che credo siano accessibili a
tutti, indipendentemente dalla tradizione spirituale o dai credo religiosi.
Queste pratiche servono ad aprire il cuore e a coltivare calma e la visione
profonda, che possono portare a una morte serena.
La prima
pratica è la riflessione. Quando arriviamo alla fine della nostra vita, viene
naturale cercare di darle un senso. Riflettere sulla vita aiuta a trovare i
significati, gli scopi, i valori e questo è già un lavoro spirituale. Il
processo di riflessione o revisione della vita può assumere molte forme
diverse. Il più delle volte succede molto spontaneamente, durante una
conversazione o ritornando ai ricordi con amici e parenti. Alcuni vogliono
silenzio e tempo da trascorrere da soli per riflettere. Alcune persone passano
settimane con i loro album di foto o telefonando ad amici che non sentono da
anni. Altri fanno album di ritagli di giornale o di foto.
Uno psicologo
che conosco incoraggia queste riflessioni leggendo ai pazienti delle storie o
dei miti di viaggi. Le storie sono un mezzo facile per entrare nell'inconscio.
Chiede ai pazienti di ascoltare e notare con quale personaggio si identificano
di più oppure di trovare un punto della storia con il quale si sentono in
sintonia. Poi chiede loro di formulare il loro finale. A volte creano storie
completamente nuove che possono ispirarli per comprendere delle questioni importanti
relative alla loro morte.
1 sogni
spesso manifestano l'inconscio che può rivelare dei significati sepolti o non
rivelati nella vita di tutti i giorni. L quello che chiedo alle persone quando
si svegliano al mattino: "Come sono stati i sogni?" Ricordate che le
parole non sono l'unico modo che la gente usa per comunicare. Una persona che
sta morendo può voler disegnare o scolpire o esprimere con i gesti la sua
esperienza. Ci sono altri modi per incoraggiare queste riflessioni. Per lo più
si tratta di essere disponibili, di ascoltare senza giudicare unitamente ad una
curiosità genuina che incoraggi ulteriori approfondimenti. Iniziate col porre
delle semplici domande aperte. Raccontami la nascita dei tuoi figli. Eri un
piantagrane da giovane? Chi sono i tuoi eroi? Quali sono le cose che vorresti
poter dimenticare? Quali sono le cose che vorresti aver scoperto prima? Cos'è
quella cosa di cui sei assolutamente sicuro nella vita? Usate il vostro
intuito. Meno critico è il processo, meglio è. Portate un senso di meraviglia
in questi dialoghi. Lasciate molto spazio. Sono sempre meravigliato da come la
gente, se la lasci parlare e presti loro piena attenzione, possa rivelare una
sorprendente profondità spirituale.
Avevamo un
volontario che era insegnante di inglese e comprendeva l'enorme potere della
storia. Passava del tempo con i pazienti incoraggiandoli a condividere momenti
della loro vita e questi gli raccontavano storie della loro infanzia oppure
parlavano a parenti morti oppure esprimevano amore. Parlavano di dispiaceri o
condividevano segreti nascosti e parlavano anche di come avrebbero fatto le
cose diversamente se fosse stata offerta loro una seconda possibilità. Alcuni
di loro facevano persino delle conversazioni immaginarie con Dio. Il volontario
registrava queste conversazioni e poi a casa trascriveva i testi. In seguito
creava dei piccoli libretti deliziosi con scritte le parole delle persone, con
a volte delle copertine o delle foto sopra. Poi restituiva i libretti alle
persone ed è una cosa meravigliosa ridare a qualcuno le proprie parole. Trovo
che quando una persona ti racconta la sua storia, si aprono delle vere
possibilità.
C'era una
dolcissima vecchia signora italiana di nome Grazia che visse con noi
all'hospice. Arrivò con una prognosi di sei settimane e dopo sette mesi era
ancora con noi. 1 volontari continuavano a descrivere la stessa conversazione,
ogni volta che entravano nella sua stanza: "Come stai oggi Grazia?"
"Oh, voglio solo morire." Ogni giorno la stessa risposta. Diventò
quasi una battuta all'hospice. Poi una sera, durante una riunione di volontari,
dissi al gruppo: "Sapete, forse non stiamo prendendo Grazia sul
serio". Così il giorno dopo andai io nella stanza e chiesi a Grazia:
"Come stai stamattina?" e lei disse: "Oh, voglio solo morire".
Allora le chiesi: "Grazia, che cosa pensi che ci sia di meglio nel morire?
" Lei mi guardò come per dire, ma che razza di domanda fai ad una vecchia
ottantenne italiana? Ma io avvertii che c'era qualcosa che doveva ancora
esprimere e allora le dissi: "Sai, Grazia, non ho veramente nessuna
garanzia che sia meglio dall'altra parte." Lei disse: "Beh, almeno
potrei uscire" Le chiesi: "Uscire da dove?" Lei incominciò a
raccontarmi la storia della sua famiglia.
Man mano che
raccontava risultò chiaro che per 50 anni di matrimonio, lei si era sempre
presa cura del marito: gli aveva cucinato i pasti, fatto quadrare i conti,
aveva sopportato i suoi umori. Non che ci fosse in lei un vero risentimento per
questo, perché aveva sempre creduto che questo fosse il suo ruolo di moglie. Ma
ora che era malata, non si immaginava come lui avrebbe potuto prendersi cura di
lei. Non voleva essere un peso e così morire sarebbe stato il suo biglietto per
uscire. Ecco perché era venuta all'hospice. Dopo che passammo un po' di tempo a
parlare, le suggerii di parlare col marito. Non ero li quando si parlarono:
erano stati sposati per 50 anni e immaginavo che se la sarebbero cavata da
soli. Quello che so è che tre giorni dopo Grazia usci dall'hospice e tornò a
casa. Visse per altri sette mesi con l'assistenza del marito e della figlia. il
suo morire non fu un peso, ma un dono che condivise con loro.
Raccontare la
nostra storia a qualcuno ci aiuta a metterla in prospettiva e a vedere più
cose. Diventiamo più consapevoli dei dettagli, quelli che non abbiamo mai visto
prima; questo ci può portare ad accettare e ad aprirci in maniera ancora più
completa alla situazione in cui ci troviamo. Nell'incoraggiare questo tipo di
riflessioni, e importante lasciare che sia la persona morente a dettare i tempi
e i confini. Meglio enfatizzare il positivo, in modo da ricordare alla persona
le sue doti e la sua innata gentilezza in questa vita.
Ma non fate
marcia indietro davanti ad alcune verità che hanno bisogno di essere dette. Le
storie possono suscitare la gratitudine che vuole essere espressa, ma anche
ricordi dolorosi che aprono le porte al bisogno di perdono e riconciliazione.
La seconda
pratica è il perdono. Nel prendersi cura delle persone che stanno morendo,
direi che la pratica del perdono è quasi sempre una pratica essenziale. Il
perdono guarisce quello che ci divide. Libera dalla paura e dal risentimento
che sono nel cuore e che ci tengono separati da noi stessi, dagli altri e dal
mondo intorno a noi. Il perdono significa lasciar andare i vecchi dolori.
Nei primi
anni all'hospice abbiamo avuto una paziente di nome Stella, che aveva un
fratello di nome Rusty che non vedeva da 20 anni. Era un cowboy e faceva rodei
M ricordo che si presentò allo Zen Hospice con quel suo cappellaccio da cowboy,
il cinturone con la fibbia in argento e gli stivaletti di serpente e subito
esclamò:"In che razza di posto avete messo mia sorella?"Salì al
pianori sopra ma non si decideva ad entrare nella stanza della sorella,
continuava a camminare su e giù per il corridoio, alla fine entrò e dopo i
primi momenti di imbarazzo sembrò che entrambi riprendessero a parlare da dove
si erano lasciati l'ultima volta. Rusty rimase da noi per circa due settimane.
Un pomeriggio stavo seduto con lui nel giardino del centro Zen. stavamo
parlando del più e del meno, quando mi disse: Vorrei dirglielo, ma non ci
riesco, non posso" Ed io dissi: "Rusty, se c'è qualcosa che vuoi dire
a tua sorella, questo è il momento, non hai molto tempo" allora lui iniziò
a raccontarmi la storia delle loro vite,di quando alla morte dei loro genitori
erano stati separati e messi in orfanotrofio,di come era stato cattivo con lei,
di come ne aveva abusato. Ci volle un po' di tempo per far uscire questa storia
e credo che rimanemmo seduti nel giardino per alcune ore. Per la maggior parte
del tempo mi limitai ad ascoltare: avevano avuto una vita veramente difficile.
Alla fine dissi: ''Rusty, andiamo di sopra a vedere tua sorella, adesso".
Quindi andammo su da Stella, entrammo nella stanza e lui girò intorno al letto
poi prese una sedia e si mise a sedere vicino a lei. Poi disse:
"Sorellina, lo sai, ci sono delle cose che vorrei dirti, ma non sono molto
bravo con le parole, non so bene come dirtele." In quel momento era
incredibilmente vulnerabile, lui, il duro cowboy. Allora Stella fece la cosa
più straordinaria, ricordo che alzò la mano e disse: "L veramente molto
semplice. Qui c'è gente che mi fa il bagno, mi nutre, sono circondata da amore
e gentilezza. Non ho bisogno di altro e non c'è colpa, nessun rimprovero".
t stato il momento di perdono più straordinario di cui sia mai stato testimone.
In quel momento veniva perdonata una vita intera.
Stella capì
che per essere liberi bisogna perdonare Il perdono è molto più di un
sentimento, richiede coraggio perché iniziando il. processo del perdonare la
prima cosa che emerge è quanto è chiuso il nostro cuore, quanto vogliamo
tenerci stretti al dolore solo perché ci è familiare. Restare attaccati a
vecchi dolori prolunga solo la nostra sofferenza. La maggior parte di noi lo
sa, e allora perché lo facciamo? Forse perché spesso confondiamo il perdono con
il dimenticare. Temiamo che se non c'è più il dolore a ricordarci, potremmo
essere ancora feriti. Oppure, se siamo stati noi a causare il dolore, sentiamo
che questa autopunizione ci impedisce di causarne ancora in futuro. t utile
distinguere tra le lezioni imparate e tutte le tensioni mentali, i dolori
fisici e le sofferenze emotive che derivano dal trattenere. Spesso confondiamo
il perdonare con il condonare l'azione di una persona. Ma il perdono non
giustifica in nessun modo azioni dannose. Perdoniamo la persona non l'azione.
Abbiamo tutta una serie di inibizioni verso il perdono. Possiamo immaginare per
esempio che non ne siamo degni o che solo Dio possa perdonare e queste sono le
voci della paura e dell'auto condizionamento.
Qualche volta
non perdoniamo perché vogliamo vendicarci, vogliamo che l'altra persona paghi
per quello che ha commesso. Vogliamo che si vergogni, che senta lo stesso
dolore che abbiamo sentito noi.
Crediamo che
la giustizia sia un prerequisito e quindi vogliamo che l'altra persona ci
chieda scusa prima di perdonarla. Vogliamo darle una lezione, assicurarci che
non ripeterà più il suo comportamento negativo. Vi suona familiare tutto
questo?
Qualche volta
non perdoniamo perché l'attaccamento al dolore è così familiare che è come se
desse un senso alle nostre vite e non possiamo immaginare chi saremmo senza di
esso. Potete sentire quanta sofferenza c'è in tutto ciò? Il perdono non ha
nulla a che vedere con la giustizia o col condonare azioni non rette o cambiare
il comportamento dell'altra persona.
Perdoniamo
perché fa troppo male non farlo. Perdoniamo per essere liberi. Il perdono è un
atto del cuore, non della mente. t il movimento di lasciar andare il dolore e
il. risentimento che abbiamo trattenuto troppo a lungo. Quando iniziamo a
praticare, possiamo sentire più rabbia che gentilezza, sentirci più chiusi che
aperti. Il perdono non è un mezzo per sopprimere queste emozioni; anzi le
facilita. Dà spazio a questi forti sentimenti di odio, paura e giudizio. Poi
cominciamo a misurarci attivamente con la nostra sofferenza, esplorando con
consapevolezza e gentilezza quegli aspetti a cui ci siamo chiusi. Il perdono ci
permette di far incontrare la sofferenza con la compassione. Richiede tempo e
pratica: il perdono non può essere forzato.
Ma per
assistere qualcuno nel territorio del perdono dovete prima fare i vostri
compiti; dovete provare la meditazione voi stessi prima di condividerla con
altri. Nel fare questa meditazione, è importante che noi ci costruiamo la
nostra capacità di perdonare gradualmente. Quindi non cominciate con la più
grave delle offese ricevute. Siate clementi, non forzate.
La
meditazione del perdono ha tre fasi. Primo, chiediamo perdono a coloro che
potremmo avere ferito. Secondo, offriamo perdono a coloro verso cui nutriamo
risentimento. Terzo, perdoniamo noi stessi. Vorrei ora provare a fare questa
pratica insieme.
Trovate una
posizione comoda.
Lasciate che
si chiudano gli occhi e portate l'attenzione all'area intorno al cuore. Ora
prendetevi qualche istante per riflettere sul significato del perdono:
compassione, tenerezza, lasciar andare vecchie ferite.
Per prima
cosa, richiamate alla mente qualcuno che potreste aver ferito. Cercate di
rendere presente questa persona, immaginatela mentalmente, entrate in contatto
con il sentimento che avete nel cuore nei suoi confronti. Invitatela dentro di
voi, chiamatela per nome.
"Per
qualsiasi cosa io abbia fatto che possa averti ferito con pensieri, parole o
azioni, ti chiedo perdono"
Osservate
ogni idea che sorge nella mente per bloccare il perdono. Lasciatele venire e
andare.
"Ti
chiedo perdono"
Ora lasciate
andare questa persona per la sua strada, e sentite il vostro cuore che è stato toccato
dalla possibilità del perdono, dalla possibilità di rilassarsi, di
ammorbidirsi, di arrendersi.
Ora
richiamate nella mente una persona che vi ha ferito, vedete se riuscite a
immaginarla con gli occhi della mente, a sentirla nel cuore, a chiamarla per
nome.
"Per ciò
che hai fatto e che mi ha ferito con parole o azioni, io ti perdono".
Solo per un
attimo provate a sentire cosa provate a toccare con pietà questo sentimento a
lungo trattenuto.
"Ti
offro il mio perdono".
Lasciate ora
che questa persona vada per la sua strada, toccata dalla possibilità del
perdono, dalla possibilità di rilassarsi, di ammorbidirsi, di arrendersi.
Ora chiamate
voi stessi nel vostro cuore, immaginatevi mentalmente e sentite una sensazione
di voi stessi nel cuore.
"Per
qualunque cosa io abbia fatto che ti ha ferito con parole, pensieri o azioni,
ti chiedo perdono. Ti offro il mio perdono".
Ammorbiditevi
attorno a ogni resistenza che si manifesta, a ogni sensazione di inadeguatezza
o di giudizio.
"Ti
chiedo perdono. Ti offro il perdono".
A volte può
essere più difficile perdonare noi stessi. Ma chi più di noi merita il nostro
amore e la nostra compassione? Poi lasciate andare anche voi stessi, toccati
dalla possibilità del perdono, ritornate al cuore e sentite che cosa c'è ora.
Incontrate con gentilezza e compassione qualsiasi cosa si presenti.
Ammorbiditevi,
rilassatevi, arrendetevi.
Alla fine
della meditazione del perdono, potremmo provare molte emozioni contrastanti.
Alcune volte potremmo sentirci aperti o come se un peso ci fosse stato tolto
via dalle spalle. Oppure potremmo essere più consapevoli dei nostri giudizi o
della nostra scarsa voglia di perdonare. Queste sono reazioni normali. Siate
gentili con voi stessi. Lavorate con questa meditazioni un po' ogni giorno e
ricordatevi che il perdono ha i suoi tempi.
Nei momenti
più profondi di perdono non c'è più nessuno da perdonare. Riusciamo a capire
che la sofferenza dell'altra persona è la nostra sofferenza. Nel Dhammapada, un
testo buddhista, è scritto: 'L'odio non finisce mai con l'odio. Solo l'amore
può farlo finire". Questa è una legge antica che non cambierà mai.
Da: "La rete di Indra buone notizie»,
anno V, n.3, 2001
Traduzione di Silvia Lombardi
Quando le cose diventano
difficili
In giro si
parla molto del morire in modo cosciente, ma non succede lo stesso per il modo
cosciente di prendersi cura. Nel processo del morire il sostegno spirituale è
altrettanto importante di un buon controllo del dolore, ma di rado questo tipo
di sostegno viene portato in modo che sia significativo. Di conseguenza in
troppi muoiono in difficoltà e nella paura.
Ma che cosa
vuol dire dare questo sostegno? Direi che soprattutto significa portare
testimonianza, stare con. Ossia non voltarsi dall'altra parte quando le cose
diventano difficili, ma rimanere nel territorio del mistero e delle domande che
non hanno risposta. A volte, ma questo dipende dalla tradizione della persona,
significa chiamare il prete che darà l'ultimo sacramento o prendere uno scialle
da preghiera o aiutare a scrivere una lettera di riconciliazione. Raramente
vuol dire fare discussioni di ordine esistenziale o introdurre delle pratiche
formali. Si tratta piuttosto di aiutare le persone a confrontarsi direttamente
con ciò che sta succedendo, a lavorare con i paradossi con cui si stanno
misurando. Non sottovalutiamolo.
L'impegno a
restare consapevoli della propria mente, cuore, corpo, senza sottovalutare
nessuna di queste parti di noi stessi, è la più essenziale di tutte le pratiche
possibili nel mezzo di tali situazioni. Nel farlo contribuiamo a creare
un'atmosfera calma e accettante per la persona che sta morendo. La pratica
della consapevolezza diviene lo strumento per aiutare le persone ad esplorare
la sofferenza e a modificare la relazione che hanno con essa nelle settimane e
nei mesi che precedono la morte. Qualche volta la consapevolezza arriva come un
laser proprio al cuore della sensazione, ma non sempre.
Nel nostro
hospice, ad esempio, c'era un tale di nome Carl che mi ricordava mio padre, gli
ero molto affezionato. Un giorno gli venne un dolore tremendo alla pancia,
allora feci una meditazione guidata per aiutarlo ad esplorare la sensazione
intorno alla zona del dolore.Ma la sofferenza era troppa e Carl non riusciva a
mantenere l'attenzione in quel punto:Allora mísi le mie mani sulla sua pancia e
gli dissi: " Carl, come ti senti se tengo la mano qui per un po'?",
lui rispose: 'Ta bene, ma mi fa male". Spostai ancora un poco la mia mano
E gli chiesi
di nuovo come andasse "Un po' meglio" rispose, a quel punto la
spostai ancora più lontano e lui disse: "Oh, così va benissimo". Gli
chiesi: "Potresti riposare Li per un po'?" , allora dalla sua bocca,
non dalla mia, uscirono queste parole:"Riposa semplicemente nell'amore,
risposa nell'amore".
Da quel giorno
ogni volta che Carl sentiva troppo dolore spingeva la pompa della morfina per
avere una dosa in più e ripeteva: "Riposare nell'amore, riposare
nell'amore".
Era successo
che sebbene non riuscisse a penetrare direttamente dentro la sensazione di
doloro, poteva però trovare
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più largo, più aperto li intorno:la sua relazione col dolore si era dunque
modificata. Quando la moglie lo venne a trovare il giorno dopo lui la guardò e
le disse: "Semplicemente riposare nell'amore ".Queste parole erano
diventate per lui una specie di mantra. Ecco dunque un modo di usare la pratica
di consapevolezza:per esplorare il dolore o per modificare il rapporto che
abbiamo con esso.
Quando una
persona sta veramente male, nelle ultime ventiquattro ore, rallentate,
muovetevi di meno, calmatevi, osservate il vostro respiro. Aiutate a creare
un'atmosfera nella stanza che sia caratterizzata da ricettivita senza paura e
dalla disponibilità ad accettare qualsiasi cosa sorga. Fate le cose semplici
con grande attenzione. Sentite l'atmosfera nella stanza: sa di pace e di calma?
E' invece caotica? C'è un senso di ordine che permetterà alla persona di cadere
a pezzi (perché questo fa parte del processo del morire, questa specie di
grande caos che si incontra) quando morirà?Guardate tutto ciò, preoccupatevi
delle cose semplici, di qualsiasi cosa possa rendere la situazione più
confortevole. Fate il minimo intervento possibile e osservate lo stato della
vostra mente.
Da: "La rete di Indra buone
notizie", anno V, n. 2, 2001
Tradotto da: Tricycle, Summer 2001
allo Zen Hospice di San Francisco
di Elisabeth Manning
Due anni fa,
quando ho partecipato al seminario che Frank Ostaseski (allora direttore dello
Zen Hospice Project) fece a Venezia, sapevo già che volevo andare a San
Francisco, allo Zen Hospice, per fare il training per volontari
sull'accompagnamento a chi sta per morire.
Durante
l'esercizio in cui Frank fa passare velocemente tra i partecipanti delle
fotografie di persone che sono state ricoverate all'hospice e ormai sono tutte
già morte, a me alla fine era rimasta in mano la foto di un giovane uomo di
colore molto arrabbiato. Ricordo che allora ebbi una sensazione di paura: ma io
potrò mai affrontare una simile situazione? Quando poi ho dovuto riempire la
domanda di ammissione al corso che era molto dettagliata sulle esperienze di
lutto che ciascuno aveva vissuto, per me la domanda più difficile è stata
quella che mi chiedeva di definire la mia identità culturale. Ho avuto un
rifiuto verso questa domanda per diversi giorni... a mano a mano veniva fuori
la mia paura: riuscirò mai a relazionarmi con persone che so essere senza casa,
ammalati di AIDS, tossici, etc.?
Perché lo Zen
Hospice nasce nel 1987 come tentativo di dare un indirizzo a chi viveva per
strada non potendo di conseguenza accedere ai servizi pubblici. L'Hospice è una
bellissima casa vittoriosa, chiamata 'The Guest House, con 5 stanze e
altrettanti degenti. L'assistenza dal punto di vista medico e infermieristico è
assicurata da una struttura che opera a domicilio (Hospice by the Bay), mentre
i volontari fanno tutto quello che farebbe un familiare: la spesa, puliscono,
cucinano e poi anche le cose più intime per il paziente, come il bagno, ecc.
Tengono compagnia, anche quando questo significa guardare insieme il Grande
Fratello! Ascoltano, o semplicemente stanno vicino, quando la persona non ha
più energie per parlare.
Lo Zen
Hospice fornisce i volontari per un posto molto diverso: nel 1998 un medico del
Laguna Hospital, un enorme ospedale geriatrico di 1.100 posti, ha voluto creare
lì un hospice. t stato così attrezzato un reparto per 28 pazienti, 14 donne e
14 uomini, che riflettono in pieno la popolazione di San Francisco.
Lavorandoci
ho conosciuto persone di ogni etnia, fede e orientamento sessuale. Tutti e due
i posti, anche se molto diversi dall'esterno, raggiungono in pieno l'obiettivo
dell'hospice che è di aiutare la persona malata a vivere, con la migliore
qualità possibile, quello che ancora le resta da vivere. La degenza non è
gratuita, ma ho potuto constatare che in entrambi i posti ciascuno veniva
accettato in base alle esigenze di salute e non per la possibilità di pagare.
In 30 circa
abbiamo partecipato al training che è durato circa 40 ore: uomini, donne,
giovani, meno giovani, di otto diverse nazionalità e con ogni tipo di impiego.
Quando la prima sera ci è stato chiesto di presentarci e di spiegare brevemente
la nostra motivazione, sono stati un medico e due infermieri quelli che mi
hanno colpito di più, dicendo che volevano riscoprire la motivazione che li
aveva portati a fare il lavoro che avevano scelto.
La prima
parte del corso riguardava soprattutto il rapporto con la nostra sofferenza,
con i lutti nelle nostre vite, il dolore della perdita. Dopo ogni esercizio che
facevamo in gruppo, ci sedevamo e meditavamo anche per pochi minuti prima di
passare alla condivisione. E nello stesso modo si aprivano e terminavano tutti
gli incontri. E questo aiutava molto a sentirsi centrati, senza sovrappiù di
emozioni da scaricare, riuscendo a giungere all'essenziale dell'esperienza
appena provata. Poi, a poco a poco, l'accento si spostava sul servizio agli
altri. C'è stato un incontro con due pazienti della Guest House: Miriam, colta,
brillante e senza casa e Clint, molto timido, invece. C'erano anche i familiari
e gli amici di tre persone che erano morte lì quell'anno. t stato molto utile
sentire che cosa li aveva aiutati mentre i loro cari stavano morendo, ma ancora
più utile è stato ascoltare che cosa non li aveva aiutati.
Ci sono stati
insegnati molti aspetti estremamente pratici come ad esempio imboccare una
persona. Si provava direttamente, a coppie, imboccandosi a turno, bendati,
immaginando di essere una persona cieca e non più in grado di parlare. Il cibo
è molto importante per chi sta male ed è stato molto utile aver provato prima
su noi stessi. Così come estremamente utile si è rivelato l'aver provato prima
tra di noi come si fa il bagno a letto. 0 come mettere il pannolone, come
toccare il malato, come girarlo nel letto, ecc.
Abbiamo fatto
anche dei «giochi di ruolo" per esplorare insieme le varie situazioni
difficili in cui ci saremmo potuti trovare. Ma al di là dell'ottimo contenuto
del corso, per me l'aiuto più grande è stato il sentirmi tenuta, accettata e
non giudicata dagli insegnanti, Frank, Eric, Zuza e Brad e da tutto il resto
del gruppo. C'era un clima di profonda fiducia reciproca che ho trovato
estremamente arricchente.
Terminato il
corso sono rimasta due mesi a lavorare in entrambe le strutture. A ogni cambio
turno, prima del passaggio di consegne, ci incontravamo tutti insieme per una
seduta di meditazione. E questo ha aiutato davvero molto la mia possibilità di
essere presente durante le ore che stavo li.
Ancora oggi
quando rifletto su quel periodo passato a San Francisco, a me sembra che sia
stato tutto come un ritiro, un ritiro senza dubbio aperto a molti stimoli che
non ci sono in un ritiro normale. Prima di partire avevo trascorso un mese di
ritiro intensivo, ma penso che propio il tipo di lavoro che svolgevo, le
continue sedute di meditazione hanno fatto sì che avessi una grande facilità ad
essere presente, e non solo dentro l'Hospice. E una condizione così
difficilmente mi durava più di qualche giorno dopo un ritiro normale.
Durante il
corso, Frank ci aveva detto che i pazienti sarebbero stati i nostri insegnanti
e che avremmo visto in loro i nostri familiari più cari. Una signora cinese,
una donna di 79 anni, l'età di mia madre, stava morendo e il marito Huan,
sebbene fosse cinese, mi ricordava molto mio padre. Per lui era molto difficile
accettare che la moglie stesse per lasciarlo e continuava a ripetere: "Ma
siamo insieme da 56 anni ......
Il direttore
con l'aiuto di un interprete ha cercato di fargli capire che la moglie stava
per morire. Ero molto presa dalla sofferenza di quest'uomo, ero a fine turno e
sono scesa per la riunione tra di noi. E li, durante la seduta di meditazione,
ho visto chiaramente che in fondo il mio dolore nasceva dal sapere che avrei
perso i miei genitori. Prima nella stanza non lo avevo visto. Il giorno
successivo ero nella stanza sistemando dei fiori quando lui è arrivato e le ha
presa la mano e insieme hanno pianto. Ho ispirato il loro dolore e ho espirato
il mio amore e questo mi ha riconciliato molto con il sapere che un giorno
perderò i miei genitori.
Verso la fine
del mio periodo a San Francisco, c'era una donna di colore sui 70 anni di nome
Betty a cui ero molto affezionata. Stava morendo e io ero andata a farle compagnia
una domenica mattina. Aveva la fronte molto calda e io ho sempre le mani molto
fredde e così a lei piaceva che la toccassi. Mi trovai a dirle: "Ti voglio
bene, Betty", e nel momento che lo dicevo ho visto come in un flash la mia
paura iniziale sul fatto che non sarei stata capace di stabilire un rapporto.
Ho sorriso e le ho detto: «So che sembra incredibile, non ci conosciamo, ma e
vero: ti voglio bene". Allora lei mi prese la testa e portò la mia fronte
fino a toccare la sua e mi disse: "Grazie".
Direi che la
cosa più grande che ho ricevuto da tutta questa esperienza è stata la maggiore
possibilità che ho sentito di accettare me stessa, di amarmi per come sono per
poter accettare e amare gli altri. E questo mi è rimasto.
Attualmente
lavoro a Roma per la Fondazione Sue Ryder in quella che viene chiamata
“assistenza al lutto”, cioè parlo con i familiari della persone ammalata che
riceve l'assistenza domiciliare e il mio rapporto con loro prosegue anche dopo
il lutto.
A volte mi è
capitato di trovarmi in situazione in cui niente è come tu vorresti, quando per
esempio nella stanza della persona che tu sai avere molto poco ancora da vivere
c'è la televisione accesa, l'ex marito che litiga con la figlia, la vicina di
casa un po' curiosa che è venuta a sentire. lo sedevo lì, sentivo la distanza
tra me e tutti loro e mi sentivo male, poi però ho visto il mio giudizio e
allora l'ho tolto, proprio come se fosse un cappotto e l'ho depositato. A quel
punto è nata una bella conversazione con la donna ammalata: la televisione era
sempre lì, anche l'ex marito e la vicina erano lì , ma tutto era molto
differente.
L'esperienza
che ho fatto a San Francisco mi aiuta enormemente: innanzitutto delle volte,
anzi direi molto spesso, non c'è bisogno di far nulla. Semplicemente stare lì e
raccogliere i racconti degli altri, sentire che cosa hanno da di re. Il solo
fatto di essere lì. in qualche modo li aiuta perché sanno che tieni la loro
sofferenza. E' un lavoro molto speciale, ma, in fondo, molto normale.
Da: "La rete di Indra buone notizie, anno
V, n 1, 2001
nell'assistenza ai malati terminali
Intervista con Frank Ostaseski
D: Da
alcuni anni dirigi lo Zen Hospice di San Francisco, un'esperienza iniziata nel
1987, Come sei arrivato a coniugare la meditazione e l'assistenza ai malati
terminali? Che cosa ti ha portato a realizzare questo progetto?
R: Abbiamo
iniziato con un'idea molto semplice: nella pratica della meditazione le persone
sviluppano quella che io chiamerei la mente che ascolta, la capacità di
ascoltare molto intimamente la propria esperienza. Mi è sembrato che ci fosse
un accostamento naturale tra coloro che stanno imparando ad ascoltare e coloro
che hanno bisogno di essere ascoltati almeno una volta nella loro vita. Abbiamo
iniziato così, semplicemente.
Per
accompagnare le persone che muoiono dobbiamo includere noi stessi
nell'equazione. Dobbiamo investigare ed esplorare la nostra relazione con la
situazione in atto in modo da poter essere di aiuto. Se non abbiamo fatto
questo tipo di ricerca, allora le persone che stanno morendo sapranno che
stiamo solo cercando di indovinare, mentre diciamo di capire.
Una delle
esperienze basilari con cui entriamo in contatto attraverso la meditazione è
quella dell'impermanenza, ossia realizzare che tutto cambia: ogni pensiero va e
viene e così ogni relazione, ogni amore. Quando capiamo profondamente tutto
questo dentro di noi, nel cuore, allora capiamo anche che la morte è nella
natura di tutte le cose. E tenendola così vicino, sulla punta delle dita,
cominciamo ad apprezzare il. fatto che la morte sia la nostra consigliera e che
sia lì, vicino a noi, per aiutarci, per informarci. Ecco perché tutte le
tradizioni spirituali che conosco ci ricordano in un modo o nell'altro di
vivere accanto alla morte: per realizzare la precarietà della nostra vita e per
accoglierne la preziosità, in modo da non perdere neppure un attimo.
Per me essere
vicino ai morenti è la cosa più vitale che possa fare; essere con la morte è
vivere pienamente la propria vita, entrare in contatto con la pienezza e la
bellezza della vita. Per me è un lavoro di grande soddisfazione.
D: Al
giorno d'oggi non si ha una grande familiarità con la morte, si tenta di
nasconderla. Cosa rispondi a chi ti chiede perché investire così tanta energia,
così tante risorse per assicurare un'assistenza medica ai malati terminali?
R: A volte io
vedo il problema al contrario. Vedo cioè quanta energia viene sprecata per
evitare questo. Negli Stati Uniti si investono molti soldi per gli ultimi sei
mesi di vita delle persone, per cercare di allontanare il problema. Si
allontanano gli anziani, si spendono milioni nell'industria dei cosmetici per
apparire giovani, anche quando siamo già nella bara. E’ pazzesco! Sarebbe bello
non vivere la vecchiaia come una decadenza e cambiare la pratica medica alla
luce di come si deve vivere la vita! Assistere le persone che muoiono è
un'esperienza incredibile, avere l'onore di accompagnare le persone in un
momento così unico e vulnerabile della loro vita è il miglior rinnovamento per
la mia vita. Poter aiutare in quel momento ed essere testimone mi insegna a
vivere. Nella mia esperienza accompagnare una persona nella sua morte è un
beneficio per entrambi: io la assisto nel momento della morte e lei mi insegna
a vivere.
Vorrei
aggiungere ancora qualcosa sulla medicina. Siamo portati a pensare che la morte
sia un evento che riguarda la medicina, ma non è cosi; non e un evento che
riguarda solamente i medici, perciò non possiamo affidare solo a loro questo
compito. Morire è una questione relazionale: si tratta della relazione che si
ha con se stessi, con le persone che si amano, con Dio o con Colui al quale noi
pensiamo di affidare le nostre ultime speranze. Così chiunque si occupi di
accompagnare un morente, deve facilitarne le relazioni ed entrare in una
totalità. Bisogna offrire il meglio che la medicina può dare per quanto
riguarda il. controllo dei sintomi, ma non si può guardare alla morte solo come
un evento clinico.
Forse a
questo punto è bene descrivere che cosa sia veramente l'hospice: si tratta di
un metodo di cura per persone generalmente negli ultimi sei mesi di vita che
enfatizza soprattutto le cure palliative focalizzandosi principalmente sul
benessere del paziente, assicurandosi che ci si occupi della sua sofferenza e
che i sintomi vengano curati. Ci si prende cura non solo della malattia, ma
dell'uomo con le sue emozioni, dei rapporti con la sua famiglia, delle sue
esigenze esistenziali e spirituali. Questo avviene lavorando in squadra con
medici, infermieri, assistenti sociali, volontari e ministri di culto:
cerchiamo tutti insieme di sostenere le persone e le loro famiglie. t molto
importante sia il paziente sia la famiglia. Di solito interveniamo negli ultimi
sei mesi di vita, ma a volte le persone si fermano solo qualche giorno, oppure
più di un anno, dipende.
D: La
presenza di un progetto come quello dello Zen Hospice influisce
sull'atteggiamento delle persone, produce secondo te dei cambiamenti?
R: Spero che
il progetto dello Zen Hospice possa avere un'influenza al di là delle persone
che entrano in contatto diretto con il progetto. Credo che tutte le volte che
la compassione si attiva ed entra nel mondo circola in cerchi concentrici. Più
specificamente penso che a livello di educazione possiamo avere un forte impatto.
Vorrei fare un esempio: a un seminario che abbiamo organizzato ha partecipato
una dottoressa che ci ha raccontato che uno dei suoi compiti in ospedale era
quello di girare nei reparti di notte, e verificare i decessi, dichiarare la
morte dei pazienti. Ci raccontò che questo stava alimentando in lei un senso di
cinismo e di esaurimento e si chiedeva se voleva ancora fare il medico. Quel
lavoro le aveva fatto perdere il contatto con la sua parte umana e voleva
smettere. Le consigliai di rapportarsi ai suoi antenati, al suo lignaggio di
provenienza: i medici sono gli eredi degli sciamani, dei guaritori, dei
filosofi greci, e le consigliai di riferirsi a loro per trovare un sostegno.
Quando si avvicinava al letto del paziente, il suo camice era la veste cerimoniale,
c'era un modo diverso di accostarsi alle persone. Apprezzò il consiglio, ma non
decise niente. Dopo alcuni mesi da un altro amico venni a sapere che la donna
era tornata nel gruppo di supporto e aveva spiegato che cosa le era successo e
di come ora si prendeva cura dei pazienti: si avvicinava a loro portando con se
una piccola scatola e, quando entrava nella stanza, apprestava un piccolo
altare, accendeva una candela e poi ungeva con dell'olio la persona, la baciava
augurando buon viaggio a chi se ne stava andando, rimanendo poi vicino alla
famiglia. Questo è il modo in cui ora fa il suo lavoro.
Non sappiamo
quale sarà il valore dei nostri atti nel futuro, ma spero che l'influenza dello
Zen Hospice si farà sentire in un modo che neppure io conosco.
D: Vorremmo
tornare al legame tra la meditazione, il buddhismo, e l'accompagnamento ai
morenti.
R: Per essere
in grado di curare, bisogna arrivare vicini al centro: è un lavoro che richiede
grande intimità, non si può farlo restando distaccati. Perciò ci dobbiamo
avvicinare molto. Questo significa che dobbiamo avvicinarci anche molto a noi
stessi, cioè entrare in un territorio che ci può spaventare molto. La
resistenza a entrarvi blocca la compassione e ci porta a sforzarci affinché la
situazione sia diversa da quella che è. Bisogna voler entrare in questo
territorio e ricercare insieme alle persone che soffrono e fare di questa
ricerca un ponte di empatia per lavorare insieme. Ed è solo in questo modo che
possiamo entrare in relazione. Negli Stati Uniti si usa l'espressione
"calore professionale" per riferirsi all'atteggiamento dei medici che
sembrano avere compassione, ma in realtà sono solo comprensivi. Così non si
guarisce: bisogna essere vicini e rischiare di spezzarsi il cuore. La pratica
della meditazione ci mostra come fare la ricerca, ci dà gli strumenti per
esplorare la nostra vita interiore perché solo così riusciremo a capire che
cosa può servire a un altro essere umano di fronte alla morte. Ecco perché
secondo me esiste una relazione molto stretta tra la pratica della meditazione
e il prendersi cura.
Nello Zen
Hospice chiediamo a tutto il nostro staff e ai volontari di praticare, di fare
la loro pratica spirituale di meditazione come ricerca personale. Lo chiediamo
perché crediamo che possa aiutare a trovare un equilibrio e una maturità che
sono essenziali se si vogliono incontrare i bisogni delle persone che muoiono.
Per questo tipo di lavoro bisogna avere una certa dose di stabilità emotiva,
così da non perdersi nel dramma del morente; bisogna essere presenti, fiduciosi
e solidali; la pratica della meditazione ci aiuta a sviluppare queste qualità.
Durante la meditazione, nello stare seduti, la vita interiore si manifesta
anche nel suo dramma, ma tutto ciò che dobbiamo fare è riuscire a non lasciarci
trascinare a destra e a sinistra dalla corrente. Quando sediamo vicino a un
morente, ci troviamo di fronte la stessa situazione: c'è la paura, la
sofferenza, la depressione. Però il praticante rimane calmo, senza perdersi
nell'esperienza, così da poter essere veramente di aiuto e di assistenza al
morente.
Questa è la
qualità che cerchiamo di sviluppare.
D: In base alla tua esperienza ritieni che con la meditazione si possano assistere le persone non solo nel momento della morte, ma anche aiutarle nell'angoscia e nella paura che provano davanti al processo del morire?
R: Una delle cose in cui ci può aiutare la meditazione è proprio nello sviluppare la capacità di rimanere calmi nelle situazioni difficili; ci può aiutare ad analizzare la natura della sofferenza. Nella pratica Zen si dice che il non sapere è un'esperienza di intimità. Vuol dire che, quando non sappiamo, la mente è aperta e dobbiamo quindi restare molto vicini all'esperienza per permettere a essa di darci le informazioni. t come andare in una grotta buia di notte senza una luce: dobbiamo sentire e procedere lentamente lungo le pareti in modo che le circostanze ci mostrino cosa fare. Di solito, invece, siamo così pieni di nozioni, di tecniche, di conoscenze che tutto questo limita effettivamente la nostra cognizione su ciò che è possibile. L'immagine e ristretta a ciò che sappiamo e non ci permette di vivere nel mistero di ciò che non sappiamo. Personalmente sono molto più interessato al mistero che alla maestria [in inglese: mystery/mastery].
D: Possiamo
chiederti come hai iniziato?
R: Tutti mi chiedono come e perché abbia iniziato a fare questo lavoro. La pratica buddhista ci insegna che sono molteplici le circostanze che portano alla nascita di una situazione. Non credo che nessuno di noi sappia veramente perché è arrivato a qualcosa. lo sono stato sicuramente influenzato dalla morte dei miei genitori, dal mio lavoro nei campi profughi in Centro America, dal mio studio con vari insegnanti; ma soprattutto credo che il motivo principale sia stato la mia sofferenza personale. Ho incontrato molto dolore e ho pensato che, forse, aiutando la sofferenza più grande degli altri, avrei evitato la mia. La pratica buddhista mi ha aiutato a non sfuggire la sofferenza, a starci insieme senza scappare lontano, a fermarmi e imparare ad ascoltare.
Quando questo
accade, si può esplorare la propria vita, la sofferenza che tutti abbiamo, e
naturalmente si comincia a capire che la sofferenza degli altri non è molto
diversa dalla nostra. Da questo momento di comprensione nasce la compassione. E
in modo molto naturale nel buio ci avviciniamo gli uni agli altri per darci la
mano. Succede proprio così. E importante capire bene la parola compassione:
signifíca soffrire con gli altri. La possiamo praticare solo se ci siamo
avvicinati a noi stessi con una certa tenerezza. Quando Gesù è nel giardino di
Getsemani dice ai suoi Apostoli: "Restate qui e aspettate". Non dice:
"Portate via la mia sofferenza, fermate le circostanze, allontanate la mia
morte". Dice solo: "Restate qui con me ed aspettate".
Ed è ciò che
facciamo con le persone che muoiono, restando vicino a loro, presenti con loro
in quel momento. Aprendo il nostro cuore alla loro sofferenza. Questa è la base
del nostro lavoro. Quando cominciamo a vedere che la sofferenza degli altri è
anche la nostra, allora anche il modo in cui ci occupiamo di loro vuol dire che
è fondamentalmente cambiato: non sono più loro i sofferenti e noi i bravi
ragazzi, ma siamo tutti nella stessa barca. Chi volete vicino al vostro letto?
Qualcuno a pagamento o qualcuno che veramente apprezza l'esperienza e condivide
con voi la vostra sofferenza? Il modo in cui tocchiamo, in cui giriamo il.
paziente nel letto, o come gli mettiamo la mano sulla fronte, può cambiare
quando c'è paura. Non vogliamo che la pratica buddhista sia separativa, ma che
sia attiva nella nostra vita. Il nostro lavoro non consiste tanto nell'essere
buddhisti, ma essere dei Buddha! Non importa avere la tonaca buddhista, ma
arrivare direttamente vicino alla persona che soffre e incontrarla con onestà.
Tutti abbiamo
la capacità di abbracciare la sofferenza di un altro, lo abbiamo fatto per
centinaia di anni gli uni con gli altri, ma lo abbiamo dimenticato. Dobbiamo solo
ricordarcene.
Siamo
diventati così professionali nel prenderci cura di noi, che abbiamo paura;
dobbiamo recuperare questa attività che ci fa incontrare gli altri. Occuparci
dei morenti sta diventando un peso, un obbligo. Dobbiamo invece vederla come
un'opportunità di risveglio. Penso che sia importante fare una distinzione tra
curare e guarire. Anche quando non c'è più la speranza di curare la malattia,
esiste sempre la possibilità di guarire lo spirito, di guarire la separazione,
la relazione tra noi e gli altri. Alla fine, guarire significa rimuovere le
astrazioni che ci tengono separati gli uni dagli altri e da noi stessi. Il modo
in cui possiamo aiutare a guarire è prestare una grande attenzione, e come
esseri umani abbiamo questa grande capacità. Questo è quello che possiamo fare
gli uni per gli altri.
In America,
nei negozi di roba usata, c'è una targhetta sui vestiti che dice: as is;
vuol dire: “così com'è”. Non c'è garanzia, a volte c'è una macchia o un piccolo
buco. Dovremmo girare con addosso delle piccole etichette con su scritte queste
parole: ti prendo come sei. Il più bel regalo che possiamo fare a una persona
che muore è accettare la sua esperienza totalmente, così come è, qualunque sia
la sua faccia.
Da: '"La rete di Indra buone
notizie" anno III, n. 3, 1999
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