)*(Stazione Celeste)

 
 
 

 

FARE AMICIZIA CON LA MORTE

 

di 

Frank Ostaseski

 

realizzato dalla Rete Indra

 

Indice:

 

Prefazione

 

Affrontare la morte insieme

 

Il servizio

 

Quando le cose diventano difficili

 

La mia esperienza allo Zen Hospice di San Francisco

di Elisabeth Manning

 

Le qualità della meditazione nell'assistenza ai malati terminali

Intervista con Frank Ostaseski

 

 

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Frank Ostaseski

 

Frank Ostaseski è stato il fondatore, nel 1987, dello Zen Hospice Project e oggi ne è l'insegnante guida.

Attraverso il suo insegnamento e i suoi scritti ha introdotto migliaia di persone negli Stati Uniti e in Europa all'esercizio della compassione e della consapevolezza nell'accompagnamento dei morenti.

Tiene regolarmente conferenze e ritiri in varie parti del mondo per chi è impegnato in attività di assistenza e per chi sta affrontando malattie gravi.

Viene regolarmente in Italia dal 1999.

 

 

 

 

 

 

 

Prefazione

 

Questa breve raccolta di scritti nasce dalla collaborazione iniziata nel 1999 tra la Rete di Indra e Frank Ostaseski e che da allora lo ha portato in Italia ogni anno per condurre seminari e ritiri di meditazione sul tema della morte e del morire. Ci è sembrato utile riunire in un'unica pubblicazione gli articoli già apparsi sulla rivista Buone notizie, augurandoci in questo modo di favorire la conoscenza del lavoro che viene svolto allo Zen Hospice di San Francisco.

Con grande dolcezza e delicatezza, Frank ci aiuta ad aprirci alle nostre paure, ai nostri dolori: ad incontrarli piuttosto che tentare ciecamente di sopprimerli. E il senso di pienezza e interezza che deriva da questo processo costituisce il terreno fertile da dove trae alimento l'empatia, la qualità umana alla base di ogni reale incontro con l'altro.

Nel suo insegnamento, la riflessione sulla morte e sul senso di precarietà in cui viviamo ci aiuta a guardare con occhi diversi ai continui cambiamenti ‑ grandi o piccoli, piacevoli o spiacevoli ‑ che caratterizzano le nostre vite: ecco che allora davanti a noi inizia a schiudersi una nuova prospettiva dove la sofferenza non costituisce più l'unico orizzonte.

Stare accanto a una persona giunta nella fase finale della vita può essere un'esperienza che spesso sfida le nostre credenze più radicate e ci porta a guardare la relazione che abbiamo con la nostra morte. t un viaggio fatto di continue scoperte che richiede coraggio e flessibilità, capacità di affrontare il rischio e di perdonare.

Il prendersi cura degli altri crea sempre un beneficio reci­proco. In questo processo iniziamo a capire che nel nutrire gli altri, ci prendiamo cura anche di noi stessi. Come spesso ama ripetere Frank, dobbiamo includere noi stessi nell'e­quazione per poter essere dei veri "compagni compassione­voli". La parola compassione significa letteralmente: soffrire con gli altri, ed è quel prefisso 'con' che conferisce senso di intimità, di condivisione, di autenticità al nostro servire.

Nello spirito di servizio la differenza tra chi riceve e chi invece dà inizia a svanire per lasciare posto a qualcosa di profondamente diverso, ossia a un senso di interconnessione capace di superare i muri divísori dietro cui tanto spesso cer­chiamo invano riparo. Iniziamo ad essere meno prigionieri della morsa della paura, meno reattivi alle minacce da cui ci sentiamo circondati.

E questo è senza dubbio un grande dono che stiamo facendo anche a noi stessi.


 

Affrontare la morte insieme

 

Alcuni anni fa, mentre nel nostro hospice stavo girando su un fianco un paziente per lavargli la schiena, lui mi disse, voltando il viso sopra la spalla: "Sai, non ho mai pensato che fosse cos!".

lo sono molto sincero con gli altri e così gli ho chiesto: "Come pensavi che fosse?" e lui mi rispose: "Non ci avevo mai pensato". In quel momento capii che questa comprensione per lui rappresentava una sofferenza maggiore del cancro in fase terminale che aveva al polmone.

La morte lo aveva afferrato di sorpresa.

Per ciascuno di noi c'è un angolo molto scuro nella nostra mente. E lì, proprio in quell'angolo, c'è una voce che ci dice: "Un giorno morirò".

Il modo in cui diamo ascolto o respingiamo questa voce determina come vivremo le nostre vite. A volte la voce ci parla molto chiaramente, ad esempio quando a stento sfuggiamo a una disgrazia o quando muore qualcuno che cono­scevamo. Invecchiando i capelli si diradano e diventano grigi e le nostre pance più molli ed è allora che la voce si fa sentire con più frequenza. Man mano che la morte si accumula nella nostra vita, la voce ci parla più spesso. Quando muore qualcuno che amiamo allora ci urla; ci fa sapere che la nostra vita non sarà mai più la stessa, ma che è stata alterata per sempre.

La morte è la questione centrale delle nostre vite eppure a mala pena pronunciamo la parola. In America impieghiamo tutta una serie di eufemismi al posto della parola 'morte'. Le persone non muoiono, se ne vanno o finiscono, come una carta di credito. Nella vita facciamo piani su tutto: con chi ci sposeremo, dove andremo in vacanza, quale carriera intraprendere, quanti bambini avere... tutte cose che potranno non accadere mai. Ma per l'unica cosa certa che ci capiterà non ci prepariamo. E anch'io non sono poi tanto diverso dagli altri.

Ogni giorno lavoro con persone che stanno morendo e ancora ci sono dei giorni in cui penso che a me non capiterà. Ma molto lentamente. nel corso di questi vent'anni, la morte ha iniziato a richiedere la mia attenzione ed è proprio perché richiama la nostra attenzione che essa ha una tale grazia e un tale potere. In qualche modo galvanizza la nostra attenzione nel momento.

Quando parlo della morte non lo faccio per spaventarci o intristirci ma perché in base alla mia esperienza, stando con persone che stanno morendo e riflettendo quotidianamente sulla morte, ho visto che è il migliore dei modi che conosco per entrare pienamente nella vita. Non conosco nessuna altra cosa che mi mostri a me stesso con la stessa chiarezza come lo stare accanto a qualcuno che sta morendo.

Quando vediamo la morte da vicino, a portata di mano, proprio sulla punta delle dita, iniziamo a capire qualcosa della vita. Cominciamo ad apprezzare che ogni cosa cambi: ogni pensiero, ogni relazione, ogni atto d'amore viene e va.

E una volta compreso questo, non ci attacchiamo più troppo strettamente a ogni cosa. Forse non ci prendiamo più nemmeno troppo sul serio. E questa qualità coltiva in noi la capacità di cedere, abbandonare e incoraggia la nostra generosità. Mi sembra strano, ma è vero, che la riflessione sulla morte ci rende più gentili gli uni con gli altri.

Quando si inizia a vedere quanto sia precaria la vita, allora si capisce anche quanto essa sia preziosa e allora non si vuole sprecare nemmeno un momento. Si desidera vivere pienamente, si vuole dire agli altri che li amiamo sul serio.

Il tema di cui volevo parlare stasera è la relazione che si instaura tra chi sta morendo e chi presta assistenza. Ciò che e importante capire fin da subito è che tutti ne abbiamo la capacità, ognuno di noi sa come prendersi cura di un altro. Lo abbiamo fatto per centinaia di anni e ora lo abbiamo solo dimenticato: dobbiamo ricordarcelo a vicenda. Abbiamo reso talmente per specialisti l'assistenza ai moribondi che ne abbiamo paura. All'inizio forse è importante comprendere che morire non è un fatto medico. Dobbiamo impiegare il meglio di ciò che la medicina ci offre per assistere chi sta per morire, ma non dovremmo permettere che sia la medicina a guidare l'esperienza. Morire è piuttosto una questione di rapporti: con noi stessi, con le persone che amiamo e con qualsiasi immagine che abbiamo della estrema gentilezza. Il nostro compito dunque è di facilitare queste relazioni e scoprire come ciascuno incontrerà la propria morte. Qual è il modo unico che ciascuno ha di affrontare questa esperienza?

Sarebbe davvero bello se avessi una pratica bella e pronta da potersi applicare in ogni situazione. Mi piacerebbe potervi dare una borsa piena di trucchi da portare con voi accanto al letto della persona che sta morendo. Temo però che servirebbe solo a separarvi dalla persona che state assistendo. La morte di ognuno è completamente unica così come lo è la costellazione di esperienze che accompagnano la morte. Non esiste un solo modo. Tuttavia penso che ci siano dei precetti o pratiche che possano essere utili per guidarci mentre stiamo accanto a una persona che sta per morire.

Recentemente sono intervenuto a una conferenza molto importante a cui erano presenti molti dottori famosi. Avevano portato diapositive, video e avevano preparato dei discorsi scritti molto bene con un punto dopo l'altro in bella successione. Il mio stile è un po' meno formale, ma ho voluto provare a sfidarmi per vedere se ero capace di pensare cinque punti importanti. E adesso li voglio condividere con voi.

 

Il primo precetto: accogli tutto, senza respingere nulla.

 

Che cosa significa? Come fare? Iniziamo creando un ambiente straordinariamente rícettivo, un ambiente caratterizzato dalla bellezza. Non solo dalla bellezza fisica, ma dall'apprezzamento per la bellezza che si incontra in quella circostanza, l'apprezzamento per il modo in cui ogni individuo attraverserà il processo della sua morte.

Vi racconto una storia che aiuta a illustrare questo punto. Le storie sono il metodo migliore perché possiamo entrarvi ogni volta che ne abbiamo bisogno.

C'era un uomo che era stato mandato al nostro hospice, veniva dal reparto psichiatrico dell'ospedale distrettuale e si trovava li perché aveva un cancro al polmone e voleva uccidersi. Non vedeva come la sua vita avesse alcun valore. Entrai nella sua stanza e mi sedetti in silenzio accanto a lui. Dopo un mi disse: "Nessuno si è mai seduto vicino a me in questa stanza per così tanto tempo". Gli risposi: "Ho molta pratica a stare seduto fermo, che cosa vorresti? "

«Degli spaghetti" disse. "Noi facciamo degli spaghetti molto buoni, perché non vieni a casa nostra e stai con noi?" gli risposi. E' stato questo il nostro colloquio di ammissione. Il giorno successivo quando poi venne, c'erano gli spaghetti pronti che lo aspettavano. Bisogna capire, per lui gli spaghetti erano la casa e il nutrimento in ogni senso. Rimase con noi per tre mesi e il suo desiderio di uccidersi non spari solo perché gli avevamo dato gli spaghetti, sebbene li facciamo veramente buoni! In quel periodo era uscito in America un libro che descriveva i diversi modi per uccidersi. Lo voleva e allora glielo procurai e glielo lessi.

Accogli tutto, senza respingere nulla.

Ero completamente convinto che ciò che quest'uomo tentava di scoprire era dove trovare il valore della sua vita. Poco prima di morire mi disse: "Frank, ti voglio ringraziare perché sono più felice ora di quanto non lo sia mai stato in tutta la mia vita". "Come è possibile, poche settimane fa volevi ucciderti perché non ce la facevi a camminare nel giardino? " gli chiesi E lui: "Quello era solo un correre dietro al mio desiderio". "Vuoi dire che le attività della tua vita non hanno più tanta importanza per te?" "No, non sono le attività che mi portano gioia, ma l'attenzione all'attività" e proseguì: "Adesso il mio piacere deriva dal fresco della brezza e dalla morbidezza delle lenzuola".

Un cambiamento notevole per quest'uomo che avevo incontrato la prima volta nel reparto psichiatrico. Accogliere tutto, senza respingere nulla richiede coraggio. Una ricettività senza paura, dal momento che non abbiamo idea di come andrà a finire.


 

Secondo precetto: porta tutto te stesso in questa esperienza

 

Significa che per essere di servizio di un'altra persona dobbiamo mettere anche noi stessi nell'equazione. Ma prima voglio spiegare la parola 'servizio' perché può generare molta confusione. Spesso si pensa al servizio come all'essere servili o spesso lo definiamo come un peso o un obbligo. Quando parlo di servizio, invece, io intendo qualcosa di simile all'accompagnare un'altra persona. Per farlo dobbiamo essere disposti a indagare la nostra esperienza. Se diciamo all'altra persona: "Io capisco" senza averlo fatto, l'altro capirà che ci stiamo buttando a indovinare. Quando serviamo è il nostro intero essere a servire. Inclusi i nostri talenti, ma anche le nostre ferite e paure. E' proprio l'investigazione interiore che crea un ponte di empatia con la persona di cui ci stiamo prendendo cura.

Avevo un mio amico, John, che stava morendo di AIDS, gli volevo molto bene, era un mio carissimo amico. Un giorno, mentre gli stavo vicino, è successo un fenomeno neurologico molto strano: in quel solo pomeriggio di colpo perse la capacità di tenere una forchetta, di stare in piedi o di dire qualcosa di comprensibile. E' stato molto duro. Sto pensando a lui, adesso.

Anche quando qualcuno muore, il rapporto continua. Fu terribile quella giornata con lui. E' durata tutta la notte fino alle prime ore del mattino. In un solo pomeriggio la condizione di john cambiò in modo drammatico: perse la capacità di tenere una forchetta, di stare in piedi e di formulare delle frasi comprensibili. Mi spaventai a morte.

Assisterlo era difficile. Oltre a questo nuovo e strano disastro neurologico, soffriva anche per dei dolorosissimi tumori anali e una diarrea costante. Mi sembrava di aver trascorso tutta la giornata spostandolo dalla vasca da bagno al gabinetto e poi di nuovo alla vasca. Solo tenerlo pulito richiedeva uno sforzo senza fine. Si dimenava e borbottava parole senza senso, si era fatta notte. Alle tre del mattino ero esausto. Non avrei fatto altro che dormire, volevo che lui tornasse a letto e che la mattina mettesse fine a quell'incubo. Tentai di prendere il controllo della situazione facendo ricorso a ogni trucco che conoscevo: a momenti lo blandivo, poi ero gentile in modo molto superficiale, poi diventavo manipolativo, arrivai anche a sgridarlo. Feci di tutto per riportarlo a letto in modo da potermi riposare.

A un certo punto, in mezzo a uno degli spostamenti dalla vasca al gabinetto, parlò e dalla sua mente confusa sentii dirmi queste parole: "Ti stai sforzando troppo". Aveva ragione, era proprio così, stavo sforzandomi troppo per mantenere il controllo, respingere la paura ed evitare il dolore di quella situazione. Mi fermai di colpo, mi sedetti sul water e tutti e due scoppiammo a piangere. La scena era incredibile: John con i pantaloni del pigiama tirati giù fino alle ginocchia, io con la carta igienica in mano, le feci erano dappertutto. Guardando retrospettivamente posso dire che quello è stato l'incontro più squisito di tutta la nostra relazione. Eravamo là, totalmente indifesi, insieme. In quel momento non c'era più niente che ci separasse, non c'erano finzioni e neppure sforzi. Non restammo cosi per sempre, stare in quello stato ci mostrò cosa fare dopo; solo dopo essere stati disponibili ad arrivare fino a quel punto abbiamo capito cosa fare in seguito.

Porta tutto te stesso al capezzale, porta tutto te stesso nell'esperienza.

 

Terzo precetto: non aspettare.

 

Quando aspettiamo siamo Pieni di aspettative; quando aspettiamo ci sfugge ciò che questo momento ha da offrirci. Siamo talmente occupati a preoccuparci per ciò che il futuro ci riserva che perdiamo le opportunità che ci stanno davanti. Se c'è una persona che amiamo, non aspettiamo per dirglielo. E' un assurdo gioco d'azzardo aspettare fino al momento della morte per fare questa investigazione o per esprimere il nostro affetto l'uno per l'altro. Quando lavoro con le famiglie, incoraggio tutti a parlare direttamente con la persona che sta morendo. Li incoraggio a essere sinceri, a esprimere il loro amore.


Quarto precetto: trova un luogo dove riposare in mezzo alle cose.

 

Spesso pensiamo al riposo come a qualcosa che faremo quando tutto il resto sarà finito. Come quando andiamo in vacanza o abbiamo finito di lavorare. Ma nel lavoro di accompagnamento delle persone che stanno morendo, dobbiamo riuscire a trovare questo punto di riposo, a volte anche in mezzo al caos. Questo luogo è sempre lì per noi, è sempre a disposizione. Dobbiamo solo portarvi l'attenzione e imparare a non ostacolarlo.

Una volta mi chiamarono a casa perché una donna nel nostro hospice stava per morire. Arrivai per stare con lei.

Era un'anziana donna ebrea russa di ottantasei anni, molto dura, senza il minimo interesse per il buddhismo, Quando entrai nella sua stanza faceva molta difficoltà a respirare, ansimava. Di solito cerco di intervenire il minimo possibile e dunque mi sedetti in un angolo della stanza. Le avevamo gia somministrato tutte le medicine del caso e degli analgesici. Non c'era dolore, ma sofferenza. Un'infermiera che le sedeva vicino e a un certo punto si rivolse ad Adele, questo era il nome della donna, dicendole: "Non aver paura, sono qui io". Al che Adele replicò: "Mi creda, se si trovasse nella mia situazione anche lei avrebbe paura". Dopo un po' l'assistente disse: "Mi sembra che abbia freddo, vuole una coperta?" La donna rispose: "Certo che ho freddo, sono quasi morta!" Davanti a quella situazione feci due osservazioni: la prima era che Adele voleva qualcuno che fosse molto diretto con lei, non voleva sentire discorsi new‑age sulla morte. La seconda era che la sua sofferenza si manifestava nel respiro. Mi avvicinai e le chiesi: "Vorresti lottare un po' meno? " " Sì ". Allora proseguii: " Ho visto che c'e un piccolo posto proprio li, al termine dell'espirazione, una piccola pausa. Dimmi se puoi, anche solo per un attimo, portare l'attenzione proprio in quel punto". Ricordate? La donna non aveva mai avuto il minimo interesse per il buddhismo o la meditazione o cose del genere, ma aveva una forte motivazione a liberarsi dalla sua sofferenza. Così riuscì a portare l'attenzione in quel posto di riposo, quel brevissimo momento alla fine dell'espirazione e un po' alla volta vidi svanire la paura dal suo viso. Aveva trovato un luogo di riposo nel mezzo delle cose. Quel momento di riposo che è sempre li, a disposizione di ciascuno; si presenta in modi diversi per ogni individuo. Dal punto di vista pratico potremmo dire che è il luogo che si trova tra due respiri. Dopo pochi altri respiri mori in tutta tranquillità.

Trova un luogo di riposo nel mezzo delle cose, scoprì come si presenta nella tua vita.

 

Quinto precetto: coltiva "la mente che non sa".

 

Si tratta di un'espressíone molto difficile da capire, non sono ancora sicuro di averla capita. Nella pratica zen esiste l'espressione "nel non sapere c'è la maggiore intimità". Ci si riferisce al fatto che quando non sappiamo dobbiamo stare molto vicini all'esperienza e in questo modo si crea un'intimità con l'esperienza. E' esattamente come entrare in una grotta buia senza nessuna luce. Non conoscendo la strada, la seguiremo a tentoni lungo le pareti, dovremo restare molto vicini all'esperienza.

Un mio amico una volta ha detto: "E' come usare il metodo Braille, troviamo la strada attraverso l'esperienza". Quando non sappiamo abbiamo la possibilità di vedere molto di più del quadro. Se entriamo nella stanza di una persona che sta morendo pieni del nostro conoscere, vedremo solo una parte limitata delle possibilità. 1 pensieri stessi che abbiamo sull'esperienza ci limitano e ci allontanano dall'esperienza e dalla persona che stiamo incontrando. Per questo diciamo che "nel non conoscere c'è la maggiore intimità". Se paragoniamo ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo, dobbiamo ammettere che ciò che non sappiamo e molto più vasto. Perciò dobbiamo essere disposti ad accoglierlo.

Un'ultima storia. Un altro mio amico ormai prossimo alla fine aveva grosse difficoltà a respirare, la testa era reclinata all'indietro e la gola molto tesa: non sapevo che cosa fare. Un insegnante spirituale molto rinomato, che tutti conoscete ma di cui non voglio dire il nome, lo venne a trovare e mi disse: "Devi fare così: toccagli la cima della testa: il suo spirito sta tentando di lasciare il corpo e se tu farai come ti dico lo incoraggerai ad andare via". Feci come mi aveva detto ma non successe nulla. Più tardi venne pure il medico che disse: "Bisogna dargli più morfina». Lo feci ma non successe nulla. Arrivò poi un famoso manipolatore del corpo che mi mostrò dei punti speciali sui piedi del mio amico che avrei dovuto toccare. Feci come aveva detto ma non successe nulla. Tutte queste persone avevano delle idee, erano anche delle buone idee, ma non erano l'intero quadro.

Ricordo che io sentivo solo che sarei dovuto andargli più vicino, così mi sdraiai accanto a lui nel letto e cominciai a carezzargli la gola e poi il cuore e un po' alla volta la testa tornò in avanti e il respiro divenne più rilassato. Ancora non so se feci la cosa giusta, forse gli ho impedito di fare chissà quale esperienza spirituale, non lo so. Credo però che per consentire a ciascuno di noi di essere libero, i nostri cuori debbano essere morbidi.

Trascrizione del discorso tenuto a Venezia il 18/6/99

Da: «La rete di Indra buone notizie", anno III, n.2, 1999

 


Il servizio

 

Allo Zen Hospice diciamo che non c'è vero servizio se non sono servite entrambe le persone. Quando lavoro davvero con qualcuno che sta morendo, lavoro anche su me stesso. Osservo la mente e mi rendo conto di come il cuore si apre e si chiude. Sono consapevole del mio stesso dolore e della paura di morire. In questo modo inizio a capire che la sofferenza dell'altra persona e anche la mia.

Al Centro Zen quando si insedia un nuovo abate si svolge una cerimonia ed è un rituale molto bello, che coinvolge l'intera comunità. Durante una delle ultime cerimonie, uno studente chiese: "Che cosa mi può insegnare la pratica spirituale nel servizio agli altri?" e, in tipico modo Zen, l'abate rispose: "Quali altri? Servi te stesso". Lo studente insistette: "Come faccio a sapere come servire me stesso?" e, naturalmente, l'abate rispose: "Prenditi cura degli altri".

Allo Zen Hospice, lavoriamo quotidianamente con persone che stanno per morire. A volte sono persone molto dure, che hanno vissuto per strada o ai margini della società, che non sopportano il loro senso di impotenza, che hanno perso ogni speranza. Ci sono altri che sono consumati dalla paura. Talvolta si girano verso il muro e si rinchiudono in se stessi, senza mai più tornare indietro.II buddismo non interessa assolutamente nulla alla maggior parte di loro. Persone di questo genere non si fidano facilmente e se voglio essere di qualche utilità dovrò essere estremamente chiaro e onesto circa la mia intenzione, in caso contrario non gli ci vorrà molto per indovinare la mia ipocrisia e il mio sentimentalismo. Molte di queste persone sbocciano ed è un grande dono stare insieme a loro. Sono capaci di incredibili riconciliazioni con le loro famiglie trovando la gentilezza e l'accettazione che hanno cercato durante tutta la loro vita. Può essere un'esperienza straordinaria.

Non faccio questo lavoro perché a volte ottengo un successo. Rincorrere tali ricompense conduce all'esaurimento e dunque alla manipolazione, perché continueremmo a cercare di creare le condizioni per ottenere i risultati attesi, invece di fronteggiare la situazione così come è. Faccio questo lavoro perché lo amo e perché servo anche me stesso. Il prendersi cura degli altri crea sempre un beneficio reciproco. In questo processo noi iniziamo a capire che nel nutrire gli altri, ci prendiamo cura anche di noi stessi. Diventiamo quello che io chiamo: "compagni compassionevoli".

La parola compassione significa letteralmente: soffrire con gli altri, ed è quella congiunzione nel mezzo della definizione ‑ 'con' ‑ che è così importante. Implica intimità e deriva dal senso di appartenenza. Inoltre, un compagno è naturalmente uno che viaggia con un altro; quindi in questa relazione non c'è una guida, non c'è né guaritore né guarito. Come il maestro Zen Reb Anderson dice: "Noi stiamo semplicemente camminando insieme attraverso nascita e morte, tenendoci per mano". E questo è un approccio radicalmente differente dall'assistenza perché riconosce esplicitamente il dono che una persona morente può offrire a colui che l'assiste. Nello Zen, c'è una pratica chiamata dokusan. t una sorta di colloquio con l'insegnante. Allo studente viene detto di aspettare fuori dalla e di concentrare tutta la propria attenzione sul momento presente. Egli non ha alcuna idea di ciò che lo aspetta dall'altra parte della porta, nessuna idea di ciò che il maestro potrà chiedergli. Quindi lo studente dovrà essere aperto, flessibile, ed avere la volontà di entrare libero da aspettative. Entrando nella stanza di un paziente morente è come fare dokusan.

Troppo spesso accade che nel prenderci cura non osserviamo veramente per vedere quel che serve, ma cerchiamo di confermare una identità. Chiamo questa "a malattia dell'aiutante", che ha un carattere molto più epidemico dell'AIDS o del cancro. Sto parlando dei vari modi che mettiamo in pratica per tenerci distaccati dalla sofferenza degli altri. Ci teniamo distanti con la pietà, la paura, il calore professionale, persino con dei gesti caritatevoli. L’attaccamento al ruolo dell'aiutante è molto vecchio per molti di noi, e se non stiamo veramente attenti, se non siamo consapevoli, questa identità imprigionerà sia noi che quelli che serviamo. Perché, se io farò l'aiutante, qualcun altro dovrà fare quello bisognoso di aiuto.

Una mia buona amica, Rachel Remen, autrice di Kitchen Table Wisdom (La saggezza del tavolo di cucina), ha scritto su questo tipo di aiuto e penso che sia una delle più belle descrizioni del servizio che io conosca. Parafrasandola, potremmo dire che servire non è la stessa cosa di aiutare.

Aiutare è basato sulla ineguaglianza, non è un rapporto tra uguali. Quando si aiuta, si usa la propria forza per aiutare qualcuno che ne ha meno. E’un rapporto "uno-sopra, uno-sotto" e la gente sente questa disuguaglianza. Quando aiutiamo poi, a volte senza volerlo, prendiamo di più di quello che diamo, diminuendo così negli altri il senso del valore e della stima in loro stessi. Quando aiuto, sono molto consapevole della mia forza, anche se in realtà non serviamo solo con la forza; serviamo con tutti noi stessi e attingiamo a tutte le nostre esperienze. Le nostre ferite servono, i nostri limiti servono, anche le nostre ombre servono. La nostra interezza serve l'interezza dell'altro e l'interezza nella vita. Aiutare è come contrarre un debito. Quando aiuti qualcuno, questi ti deve qualcosa, mentre il servizio e reciproco. Quando aiuto ho un senso di soddisfazione, ma quando servo ho un senso di gratitudine.

Servire è anche diverso da aggiustare. Quando aggiustiamo, vediamo la persona come rotta. Aggiustare è un tipo di giudizio che ci separa dagli altri e crea distanza. Quindi fondamentalmente vediamo che aiutare, aggiustare e servire sono modi diversi di vedere la vita. Quando aiuti, vedi la vita come debole. Quando aggiusti, la vedi come rotta. Quando servi, vedi la vita come un intero e chi serve sa che si viene usati da qualcosa di più grande di se stessi.

Una sera Tom, uno dei volontari, si stava occupando di un paziente con l'AIDS. J.D. era ormai molto debole, tanto da far fatica a stare in piedi e aveva bisogno di aiuto per svestirsi e altre cose. Proprio quella sera, Tom stava aiutando J.D. a muoversi verso la comoda, quando le gambe di J.D. non ressero e lui cadde. Ci fu un caos tremendo. I pantaloni del pigiama di J.D. gli arrivarono alle anche, la comoda si capovolse. Un pasticcio terribile. J.D. stava bene, ma Tom era distrutto. Comunque Tom nervosamente si arrangiò e rimise J.D. sul letto e poi mi chiamò e disse: «Bisogna che rivediamo insieme le tecniche su come spostare qualcuno dal letto alla comoda". Ma io gli dissi: "Tom, fai semplicemente questo: la prossima volta che sposterai J.D., controlla come hai la pancia e vedi se è morbida". Lui replicò: «No, no, non la roba buddhista. Voglio sapere le procedure infermieristiche, come muovo il suo ginocchio." Ma io dissi: "Tom, controllati semplicemente la pancia e chiamami dopo".

Poco tempo dopo mi chiamò e disse: ''Frank, è stato sorprendente. Stavo spostando J.D. e la mia pancia era dura come una roccia. Mi sono reso conto che avevo timore e così mi sono fermato: ho respirato alcune volta, ho ammorbidito la pancia e la cosa che è successa dopo è che mi sono trovato J.D. nelle braccia come un'amante o un bambino. Non è stato per niente un problema".

Quando il cuore è aperto e la mente è calma, quando l'attenzione è totalmente nel momento presente, ecco che il mondo non è più diviso e sappiamo cosa fare.Se indaghiamo al cuore del servizio vediamo che c'è uno schema che si ripete:il senso di separatezza è il comun denominatore di tutte le abitudini che ci ostacolano nel nostro lavoro mentre l'esperienza della unità è sempre presente in ogni gesto o momento che sembrano andare nella direzione del servizio. Einstein ha parlato di questo e Sogyal Rinpoche lo cita nel suo "Libro tibetano del vivere e del morire": "Ogni essere umano fa parte di un insieme che noi chiamiamo Universo, una parte limitata nel tempo e nello spazio. L'uomo vive se stesso, i suoi pensieri e sentimenti come qualcosa di separato da tutto il resto, in una specie di illusione ottica della sua coscienza. L'illusione costituisce una specie di prigione che ci limita ai nostri desideri personali e all'affetto per le poche persone più vicine a noí.11 nostro compito deve essere quello di liberarci da questa prigione allargando il nostro cerchio di compassione fino ad abbracciare tutte le creature viventi e l'intera natura nella sua bellezza ".Quando il cuore non è più diviso, tutto ciò che incontriamo diventa la nostra pratica ed ecco che allora il servizio è uno scambio sacro, proprio come inspirare ed espirare. Il sostegno fisico e spirituale che riceviamo nel mondo equivale all'inspirazione. Poi, poiché tutti abbiamo dei doni da offrire, una parte della nostra felicità nel mondo consiste nel restituire qualcosa e questo processo equivale all'espirazione. Non ostacoliamo quindi la saggezza e la compassione innate e permettiamo alla nostra innata capacità di vedere ciò di cui ha bisogno l'altro mettendoci al servizio sia dei morenti che dei vivi. Ci sono innumerevoli modi di esprimere la compassione attraverso il servizio: modi per servire il corpo, modi per servire il cuore e la mente e modi per servire lo spirito.

Il primo modo per esprimere la compassione è occuparci del corpo con il dono del toccare. Il contatto è la più antica forma di guarigione ed è uno dei bisogni basilari dell'essere umano. Una notte, mi ricordo di avere visto Ray avvicinare una sedia ai piedi del letto di ospedale di Mark e sistemarsi i piedi a terra. Tirò su la testa, leggermente stirandosi la schiena e così poté sedere completamente fermo. C'erano altri quattro visitatori che chiacchieravano riempiendo la stanza con l'intenzione di tirare su il morale di Mark, il quale, dopo aver combattuto l'AIDS per anni, ora era fragile come un uccellino. L'intenzione era buona, ma Mark sembrava annegare in mezzo a tutti quegli stimoli. Ray annuì a Mark con un leggero sorriso ed il gesto fu qualcosa a metà tra: "Mi fa piacere vederti ancora" e un inchino di rispetto.

Esprimeva attenzione e chiedeva il permesso di toccare. Le mani di Ray si fecero strada sotto le lenzuola di Mark fino ai piedi. Non potevo vedere alcun movimento e se pure c'era, doveva essere molto delicato. Non so se stesse premendo su alcuni punti speciali, ma sicuramente non c'erano misteri: ciò che importava era il profondo contatto stabilito attraverso il tatto, due uomini che entravano in un rifugio silenzioso insieme. Per mezz'ora Ray ascoltò, rassicurando, esplorando, rispondendo a Mark, senza che una singola parola fosse pronunciata. Il chiacchiericcio nella stanza ancora durava, ma ora Mark stava galleggiando, invece di annegare. Quando il massaggio ai piedi fini, Ray tolse la sua mano piano e con attenzione, si sedette di nuovo sulla sedia stando fermo. Allora Mark gli mandò un bacio, poi chiuse gli occhi e affondò nel cuscino a riposare.

La gente viene toccata continuamente negli ospedali: si viene girati nel letto, viene preso il polso, prelevato il sangue. Le infermiere e i dottori fanno iniezioni, posizionano tubicini e mettono le flebo, fanno tutti i test possibili. Tutto questo è toccare, ma quante volte, mi chiedo, questo toccare è vissuto come curativo? 1 morenti sono estremamente vulnerabili. Si sentono fisicamente deboli, emotivamente non protetti, soli, a volte molto confusi. Se sono in ospedale, probabilmente è molto dura per loro: può essere vissuto come un luogo poco familiare e con un eccesso di stimoli. Il dolore poi è quasi universale. Il corpo non funziona bene e a causa di ciò possono trovarsi a dipendere dagli altri. E questo può far nascere la sensazione di essere impotenti. A completare il quadro, si trovano a dover fare i conti anche con i tabù sociali sulla loro malattia e su come è cambiato il loro corpo. Alcuni mi hanno parlato di una sensazione di tradimento da parte del corpo, mi hanno detto di sentirsi detestabili e intoccabili.

Il toccare inizia nel momento in cui si entra nella stanza. Prima tocchiamo con gli occhi, quando osserviamo l'ambiente per stabilire un contatto diretto con la persona a letto. Questo atto può esprimere la nostra presenza o manifestare il nostro disagio. Anche l'ascolto è un modo per toccare: può essere ricettivo, aperto, incoraggiante oppure selettivo e guidato dalle aspettative. La nostra voce tocca. Possiamo parlare lentamente e amabilmente, consapevoli del tono della voce per esprimere cura e conforto. Oppure può essere brusco e affrettato, a significare che abbiamo cose più importanti da seguire altrove. Non è necessario fare un corso di massaggio per stabilire un contatto amorevole con un altro essere umano; basta attingere alla nostra innata tenerezza. Non è la tecnica che conta, nemmeno dove mettiamo le mani. E’ la qualità del cuore con la quale tocchiamo e la volontà di essere veramente presenti.

Mia nonna faceva dei meravigliosi massaggi alla testa. Le sue mani erano piene di gentilezza. Mi dava la sensazione che avesse tutto il tempo di questa terra e che non ci fosse nulla più importante di me. Tutti abbiamo bisogno di toccare ed essere toccati e quelli che stanno morendo non sono un'eccezione.

erto, bisogna andarci piano all'inízio, procedendo con calma e rimanendo ricettivi, accogliendo anche la reazione che si ottiene mentre lo si fa. Chiaro che c'è un rischio nel fare questo. Possiamo sentirci a disagio o essere persino rifiutati. Ma qual è l'alternativa a non toccare? La solitudine che regna nelle case di cura del nostro paese è una conseguenza di questa strategia.

Nell'offrire delle cure, esistono infinite possibilità per un toccare che esprima compassione e rassicurazione, oltre al valore del rapporto con la persona malata. Non ci vuole più tempo. Apporre gentilmente la mano sul petto di una persona tesa con problemi di respirazione, può aprire una opportunità di calma. Quando prendiamo il polso dobbiamo stare li per almeno 30 secondi. Perché non usare il tempo per stabilire un contatto umano onesto? Girare qualcuno nel letto, può darci l'opportunità di strofinare la schiena e applicare una lozione. Una pezza fredda sulla fronte di qualcuno che sta sudando può essere un gesto di gentilezza che può veramente aiutare. A volte tenere la mano può bastare.

In fin dei conti, è la consapevolezza che fa guarire. Il toccare è solo lo strumento. Se portiamo la consapevolezza al momento del contatto, qualsiasi forma di tatto può trasformare ed ognuno di noi è capace di stabilire un contatto simile.

Il secondo modo per esprimere compassione è prestare attenzione al cuore e alla mente attraverso il dono dell'ascolto. Spesso penso alla pratica di meditazione come un modo per imparare ad ascoltarci molto intimamente. Diciamo che in meditazione coltiviamo la mente che ascolta, come potremo dire H cuore che ascolta. Penso che questo tipo di pratica ci prepari bene per stare con persone che hanno veramente bisogno di essere ascoltate.

Steve stava vivendo pienamente gli ultimi giorni della sua vita. Aveva combattuto l'AIDS per circa 10 anni e a quel tempo stava rendendosi conto delle sue energie limitate. Però, nonostante le condizioni di estrema debolezza e inabilità, trasudava amore, offrendolo liberamente a chiunque entrasse nella sua stanza. Anche Rick aveva l'AIDS e viveva nell'hospice. Un colpo gli aveva paralizzato la parte destra e l'afasia gli rendeva la parola confusa e difficoltosa e questo lo faceva sentire isolato e non compreso. Una parte di Rick anelava che qualcuno potesse capire cosa stava attraversando. Dissi a Rick che Steven era vicino alla fine della sua vita e così Rick decise di andare a dargli il suo ultimo saluto. Rimasi a guardare un momento mentre Rick entrava e si sedeva sul bordo del letto e poi per circa 20 minuti tutti e due rimasero in un profondo scambio silenzioso. Non venne pronunciata nessuna parola. I loro occhi non si lasciarono per neanche un attimo e c'era una straordinaria intimità. Alla fine, riconoscendo la qualità della presenza che avevano condiviso, Steven disse semplicemente: "Grazie, è stato meraviglioso" e Rick concordò annuendo. Poi si abbracciarono e Rick ritornò in camera sua. Ho avuto l'impressione che molte delle cose che Rick aveva da dire, siano state ascoltate quel pomeriggio. L'ascolto è tutto fatto di dare. Guarisce attraverso la forza della generosità. t un dono a mani aperte che non richiede nulla in cambio. Non riesco ad immaginare un dono più prezioso per qualcuno che sta morendo.

Per ascoltare viene richiesto di diventare vuoti, disponibili a ricevere, senza aspettative o giudizi, a essere sorpresi. Un buon ascolto richiede sia l'attenzione rivolta verso l'altra persona sia verso la nostra vita interiore. t necessario porre la massima attenzione alle nostre sensazioni, sentimenti e intuizioni. Perché è questo ciò che ci permette di risuonare con un'altra persona.

Lo psicologo Carl Rogers diede una magnifica descrizione dell'empatia, dicendo: "Empatia significa entrare nel campo percettivo privato di un'altra persona sentendosi pienamente a casa propria. Significa vivere temporaneamente la sua vita e muoversi dentro delicatamente, senza giudizi. Comunicare ciò che senti nel suo mondo man mano che guardi con occhi freschi e senza paura. Significa controllare spesso con l'altro l'accuratezza del tuo sentire e farsi guidare dalle reazioni che ti tornano indietro. Stare con qualcuno in questo modo significa che devi lasciare da parte le tue visioni e i valori che valgono per te, in modo da entrare nel mondo dell'altro libero da pregiudizi. In un certo senso questo significa che lasci da parte te stesso e questo può essere fatto solo da una persona che si sente sicura di se stesso e non teme di perdersi in ciò che può diventare il mondo strano e bizzarro di un altro, perché sa che potrà facilmente ritornare al suo mondo qualora lo desideri".

Non è bello: "Muoversi nel suo mondo, delicatamente, senza giudizio, guardando con occhi freschi e senza paura"? Riuscite a immaginare che cosa si prova ad avere qualcuno che ti ascolta in questo modo?

L'ascolto empatico richiede la nostra completa presenza. Ciò significa che i nostri corpi e le nostre menti devono entrare nella stanza allo stesso tempo. Può sembrare ovvio, ma non si verifica sempre. Troppo spesso lasciamo la mente sull'ultima attività che stavamo facendo oppure entriamo nella stanza così occupati dalle nostre idee, aspettative e immaginazioni da non lasciare spazio a nient'altro.

Quando ti siedi di fianco al letto, fai un profondo respiro. Lascia andare le attività della giornata e le tue aspettative. Arriva Li, vedi cosa senti.

Semplicemente vivi. Non c'è niente di speciale da fare. Osserva la tendenza a voler far succedere qualcosa. Questo può indurre un sacco di pressione sull'ammalato. Tieni solo compagnia e rimani attento. Ho guardato la TV per ore con pazienti, immaginando di non essere di alcun aiuto. Poi, appena mi alzavo per andarmene, la persona a letto mi dice va: "Grazie. t stato carino stare con qualcuno che non mi ha trattato come un malato".

A volte l'apertura accade con una modalità assolutamente inaspettata. C'era un ragazzo all’Hospice, di nome Jackie, eroinomane da 20 anni. Un giorno stavamo seduti nel giardino interno a chiacchierare e siamo rimasti un po' insieme. A un certo punto gli dissi: "Ehi, Jackie, ecco che ti trovi in un hospice buddhista. Pensi che rinascerai?" Disse: «Non so". "Forse rinascerai, forse ritornerai come mucca" proseguii io e lui mi rispose: "Non voglio ritornare come una dannata mucca". "Allora come cosa vuoi ritornare?" Lui disse: "Jackie" "Perché vuoi tornare come Jackie? Sei già stato Jackie. Perché non provi con qualcos'altro?" “No, tornerò come Jackie" Gli chiesi: "Perché?" "Perché la prossima volta lo farò bene". Vedete, in quel momento siamo entrati in nuovi territori. Jackie si mise a parlare della sua vita e di cosa contava di più per lui.

Prestate solo attenzione. Non si sa mai quando questi discorsi possono saltare fuori.

Il terzo modo che abbiamo per esprimere la nostra compassione è prenderci cura dello spirito con il dono della consapevolezza. Nel processo del morire, il sostegno spirituale è altrettanto importante quanto le cure mediche, ma solo raramente lo porgiamo in modo che sia realmente significativo. E dunque molta gente, invece che in pace, muore nello stress e nella paura. Ma possiamo farci qualcosa. Che cos'è il sostegno spirituale? Innanzitutto vuol dire portare testimonianza. Ossia non girarsi dall'altra parte quando le cose diventano difficili, ma restare presenti nel territorio del mistero e delle domande senza risposta. E' aiutare le persone a scoprire la propria verità, anche quando non ci troviamo d'accordo con essa.

Talvolta significa chiamare un prete per somministrare l'estrema unzione o mettere uno scialle di preghiera sulle spalle di una persona morente, oppure potrebbe essere recitare delle preghiere o meditare insieme, ovvero scrivere una lettera che porti alla riconciliazione. Nella mia esperienza, il sostegno spirituale generalmente non prevede discussioni esistenziali o pratiche esoteriche, non riguarda il fuggire da questa vita, bensì l'affrontarla direttamente. Si tratta di essere consapevoli delle opportunità, qui ed ora, di esprimere amore e compassione. Per essere un vero sostegno dobbiamo avere la volontà di uscire dalla nostra personalità ben difesa o dai sistemi di credenze e rinunciare al nostro bisogno di controllo. Allora in questa resa si apre una porta e scopriamo con la persona morente uno spazio che è più grande della nostra vita, ma che la include. Ciò permette di apprezzare meglio la sacralità che sta nelle cose e nelle attività ordinarie. Il nostro paradiso, la nostra illuminazione è qui e ora e noi possiamo aiutare le persone ad assaporare questa esperienza prima di morire.

t importante ricordare nell'offrire sostegno spirituale che anche se non c'è alcuna possibilità di cura e sempre possibile guarire. t importante capire la distinzione. Guarire ‑ healing ‑ deriva dalla stessa radice di interezza ‑wholeness  Interezza significa non rotto o danneggiato. Nel guarire c'è la riscoperta della nostra intrinseca interezza.

Vorrei riprendere alcuni brani di una lettera scritta dalla moglie di uno dei residenti del nostro hospice in cui parla di come il sostegno spirituale incoraggi il ritorno all'interezza.

" ... A causa della lunga battaglia con il cancro, mio marito Robert era distrutto nella mente, nel corpo e nello spirito. Mi disse di avere perso tutto: la fede, la pace della mente e tutto il suo spirito. Si trovava in uno stato di agonia spirituale e intellettuale. Ma appena entrò nella sua stanza allo Zen Hospice, iniziò una sorta di guarigione. Si voltò verso di me e disse: 'Mi sembra di essere in un santuario. I volontari e il personale erano così gentili. Ciascuno ci portava qualcosa di diverso e ciascuno sembrava in grado di comunicare il suo amore senza alcuno sforzo. Era come essere avvolti in un bozzolo dove ricevevamo calore e sostegno, dove non avevamo più bisogno di lottare. Osservavo Robert che se ne andava fisicamente, ma vedevo anche la guarigione emotiva e spirituale che era in corso. Trovarsi con voi permise a Robert di ritornare a essere integro prima di morire. Permise anche a me di capire che anche in un grande dolore si può sperimentare gioia e gratitudine, perché vidi che la persona che amavo più di tutti al mondo aveva trovato la pace e il completamento alla fine della sua vita."

Per essere utile, il sostegno spirituale deve occuparsi di questioni molto concrete come la paura, il significato e gli scopi, ma anche lasciare spazio al mistero che caratterizza il morire. Ci sono innumerevoli modi per offrire sostegno spirituale alle persone durante le ultime settimane della loro vita: pratiche di compassione come il tonglen, pratiche di consapevolezza sulla morte, meditazioni di gentilezza amorevole, preghiere contemplative, pratiche di concentrazione che stabilizzano la mente, rituali che pongono l'enfasi sull'imminenza della morte. Tutto ciò nelle mani di un praticante abile può essere un servizio impagabile per qualcuno che sta morendo. In ogni caso, per la persona che aiuta, la pratica essenziale è l'impegno a mantenere la consapevolezza del corpo, della mente e del cuore. In questo modo si contribuisce a mantenere un ambiente calmo e ricettivo intorno alla persona che sta morendo. In un certo senso, gli prestiamo la stabilità della nostra mente, allo stesso modo come prestiamo la forza del nostro corpo nelle attività di assistenza. Inoltre la nostra calma serve anche come modello per gli altri.

Il mio suggerimento è di incominciare con lo sviluppare una pratica di consapevolezza di base. Lavorare con brevi istruzioni di meditazione, leggere libri che ispirino. Cercare sostegno per sviluppare la pratica contemplativa presso un insegnante nella tua zona. Una volta che avrete un po' di esperienza nella pratica della consapevolezza e nella preghiera contemplativa, allora vedrete che queste qualità troveranno naturalmente espressione nel vostro lavoro di assistenza. Vorrei solo condividere due pratiche che credo siano accessibili a tutti, indipendentemente dalla tradizione spirituale o dai credo religiosi. Queste pratiche servono ad aprire il cuore e a coltivare calma e la visione profonda, che possono portare a una morte serena.

La prima pratica è la riflessione. Quando arriviamo alla fine della nostra vita, viene naturale cercare di darle un senso. Riflettere sulla vita aiuta a trovare i significati, gli scopi, i valori e questo è già un lavoro spirituale. Il processo di riflessione o revisione della vita può assumere molte forme diverse. Il più delle volte succede molto spontaneamente, durante una conversazione o ritornando ai ricordi con amici e parenti. Alcuni vogliono silenzio e tempo da trascorrere da soli per riflettere. Alcune persone passano settimane con i loro album di foto o telefonando ad amici che non sentono da anni. Altri fanno album di ritagli di giornale o di foto.

Uno psicologo che conosco incoraggia queste riflessioni leggendo ai pazienti delle storie o dei miti di viaggi. Le storie sono un mezzo facile per entrare nell'inconscio. Chiede ai pazienti di ascoltare e notare con quale personaggio si identificano di più oppure di trovare un punto della storia con il quale si sentono in sintonia. Poi chiede loro di formulare il loro finale. A volte creano storie completamente nuove che possono ispirarli per comprendere delle questioni importanti relative alla loro morte.

1 sogni spesso manifestano l'inconscio che può rivelare dei significati sepolti o non rivelati nella vita di tutti i giorni. L quello che chiedo alle persone quando si svegliano al mattino: "Come sono stati i sogni?" Ricordate che le parole non sono l'unico modo che la gente usa per comunicare. Una persona che sta morendo può voler disegnare o scolpire o esprimere con i gesti la sua esperienza. Ci sono altri modi per incoraggiare queste riflessioni. Per lo più si tratta di essere disponibili, di ascoltare senza giudicare unitamente ad una curiosità genuina che incoraggi ulteriori approfondimenti. Iniziate col porre delle semplici domande aperte. Raccontami la nascita dei tuoi figli. Eri un piantagrane da giovane? Chi sono i tuoi eroi? Quali sono le cose che vorresti poter dimenticare? Quali sono le cose che vorresti aver scoperto prima? Cos'è quella cosa di cui sei assolutamente sicuro nella vita? Usate il vostro intuito. Meno critico è il processo, meglio è. Portate un senso di meraviglia in questi dialoghi. Lasciate molto spazio. Sono sempre meravigliato da come la gente, se la lasci parlare e presti loro piena attenzione, possa rivelare una sorprendente profondità spirituale.

Avevamo un volontario che era insegnante di inglese e comprendeva l'enorme potere della storia. Passava del tempo con i pazienti incoraggiandoli a condividere momenti della loro vita e questi gli raccontavano storie della loro infanzia oppure parlavano a parenti morti oppure esprimevano amore. Parlavano di dispiaceri o condividevano segreti nascosti e parlavano anche di come avrebbero fatto le cose diversamente se fosse stata offerta loro una seconda possibilità. Alcuni di loro facevano persino delle conversazioni immaginarie con Dio. Il volontario registrava queste conversazioni e poi a casa trascriveva i testi. In seguito creava dei piccoli libretti deliziosi con scritte le parole delle persone, con a volte delle copertine o delle foto sopra. Poi restituiva i libretti alle persone ed è una cosa meravigliosa ridare a qualcuno le proprie parole. Trovo che quando una persona ti racconta la sua storia, si aprono delle vere possibilità.

C'era una dolcissima vecchia signora italiana di nome Grazia che visse con noi all'hospice. Arrivò con una prognosi di sei settimane e dopo sette mesi era ancora con noi. 1 volontari continuavano a descrivere la stessa conversazione, ogni volta che entravano nella sua stanza: "Come stai oggi Grazia?" "Oh, voglio solo morire." Ogni giorno la stessa risposta. Diventò quasi una battuta all'hospice. Poi una sera, durante una riunione di volontari, dissi al gruppo: "Sapete, forse non stiamo prendendo Grazia sul serio". Così il giorno dopo andai io nella stanza e chiesi a Grazia: "Come stai stamattina?" e lei disse: "Oh, voglio solo morire". Allora le chiesi: "Grazia, che cosa pensi che ci sia di meglio nel morire? " Lei mi guardò come per dire, ma che razza di domanda fai ad una vecchia ottantenne italiana? Ma io avvertii che c'era qualcosa che doveva ancora esprimere e allora le dissi: "Sai, Grazia, non ho veramente nessuna garanzia che sia meglio dall'altra parte." Lei disse: "Beh, almeno potrei uscire" Le chiesi: "Uscire da dove?" Lei incominciò a raccontarmi la storia della sua famiglia.

Man mano che raccontava risultò chiaro che per 50 anni di matrimonio, lei si era sempre presa cura del marito: gli aveva cucinato i pasti, fatto quadrare i conti, aveva sopportato i suoi umori. Non che ci fosse in lei un vero risentimento per questo, perché aveva sempre creduto che questo fosse il suo ruolo di moglie. Ma ora che era malata, non si immaginava come lui avrebbe potuto prendersi cura di lei. Non voleva essere un peso e così morire sarebbe stato il suo biglietto per uscire. Ecco perché era venuta all'hospice. Dopo che passammo un po' di tempo a parlare, le suggerii di parlare col marito. Non ero li quando si parlarono: erano stati sposati per 50 anni e immaginavo che se la sarebbero cavata da soli. Quello che so è che tre giorni dopo Grazia usci dall'hospice e tornò a casa. Visse per altri sette mesi con l'assistenza del marito e della figlia. il suo morire non fu un peso, ma un dono che condivise con loro.

Raccontare la nostra storia a qualcuno ci aiuta a metterla in prospettiva e a vedere più cose. Diventiamo più consapevoli dei dettagli, quelli che non abbiamo mai visto prima; questo ci può portare ad accettare e ad aprirci in maniera ancora più completa alla situazione in cui ci troviamo. Nell'incoraggiare questo tipo di riflessioni, e importante lasciare che sia la persona morente a dettare i tempi e i confini. Meglio enfatizzare il positivo, in modo da ricordare alla persona le sue doti e la sua innata gentilezza in questa vita.

Ma non fate marcia indietro davanti ad alcune verità che hanno bisogno di essere dette. Le storie possono suscitare la gratitudine che vuole essere espressa, ma anche ricordi dolorosi che aprono le porte al bisogno di perdono e riconciliazione.

La seconda pratica è il perdono. Nel prendersi cura delle persone che stanno morendo, direi che la pratica del perdono è quasi sempre una pratica essenziale. Il perdono guarisce quello che ci divide. Libera dalla paura e dal risentimento che sono nel cuore e che ci tengono separati da noi stessi, dagli altri e dal mondo intorno a noi. Il perdono significa lasciar andare i vecchi dolori.

Nei primi anni all'hospice abbiamo avuto una paziente di nome Stella, che aveva un fratello di nome Rusty che non vedeva da 20 anni. Era un cowboy e faceva rodei M ricordo che si presentò allo Zen Hospice con quel suo cappellaccio da cowboy, il cinturone con la fibbia in argento e gli stivaletti di serpente e subito esclamò:"In che razza di posto avete messo mia sorella?"Salì al pianori sopra ma non si decideva ad entrare nella stanza della sorella, continuava a camminare su e giù per il corridoio, alla fine entrò e dopo i primi momenti di imbarazzo sembrò che entrambi riprendessero a parlare da dove si erano lasciati l'ultima volta. Rusty rimase da noi per circa due settimane. Un pomeriggio stavo seduto con lui nel giardino del centro Zen. stavamo parlando del più e del meno, quando mi disse: Vorrei dirglielo, ma non ci riesco, non posso" Ed io dissi: "Rusty, se c'è qualcosa che vuoi dire a tua sorella, questo è il momento, non hai molto tempo" allora lui iniziò a raccontarmi la storia delle loro vite,di quando alla morte dei loro genitori erano stati separati e messi in orfanotrofio,di come era stato cattivo con lei, di come ne aveva abusato. Ci volle un po' di tempo per far uscire questa storia e credo che rimanemmo seduti nel giardino per alcune ore. Per la maggior parte del tempo mi limitai ad ascoltare: avevano avuto una vita veramente difficile. Alla fine dissi: ''Rusty, andiamo di sopra a vedere tua sorella, adesso". Quindi andammo su da Stella, entrammo nella stanza e lui girò intorno al letto poi prese una sedia e si mise a sedere vicino a lei. Poi disse: "Sorellina, lo sai, ci sono delle cose che vorrei dirti, ma non sono molto bravo con le parole, non so bene come dirtele." In quel momento era incredibilmente vulnerabile, lui, il duro cowboy. Allora Stella fece la cosa più straordinaria, ricordo che alzò la mano e disse: "L veramente molto semplice. Qui c'è gente che mi fa il bagno, mi nutre, sono circondata da amore e gentilezza. Non ho bisogno di altro e non c'è colpa, nessun rimprovero". t stato il momento di perdono più straordinario di cui sia mai stato testimone. In quel momento veniva perdonata una vita intera.

Stella capì che per essere liberi bisogna perdonare Il perdono è molto più di un sentimento, richiede coraggio perché iniziando il. processo del perdonare la prima cosa che emerge è quanto è chiuso il nostro cuore, quanto vogliamo tenerci stretti al dolore solo perché ci è familiare. Restare attaccati a vecchi dolori prolunga solo la nostra sofferenza. La maggior parte di noi lo sa, e allora perché lo facciamo? Forse perché spesso confondiamo il perdono con il dimenticare. Temiamo che se non c'è più il dolore a ricordarci, potremmo essere ancora feriti. Oppure, se siamo stati noi a causare il dolore, sentiamo che questa autopunizione ci impedisce di causarne ancora in futuro. t utile distinguere tra le lezioni imparate e tutte le tensioni mentali, i dolori fisici e le sofferenze emotive che derivano dal trattenere. Spesso confondiamo il perdonare con il condonare l'azione di una persona. Ma il perdono non giustifica in nessun modo azioni dannose. Perdoniamo la persona non l'azione. Abbiamo tutta una serie di inibizioni verso il perdono. Possiamo immaginare per esempio che non ne siamo degni o che solo Dio possa perdonare e queste sono le voci della paura e dell'auto condizionamento.

Qualche volta non perdoniamo perché vogliamo vendicarci, vogliamo che l'altra persona paghi per quello che ha commesso. Vogliamo che si vergogni, che senta lo stesso dolore che abbiamo sentito noi.

Crediamo che la giustizia sia un prerequisito e quindi vogliamo che l'altra persona ci chieda scusa prima di perdonarla. Vogliamo darle una lezione, assicurarci che non ripeterà più il suo comportamento negativo. Vi suona familiare tutto questo?

Qualche volta non perdoniamo perché l'attaccamento al dolore è così familiare che è come se desse un senso alle nostre vite e non possiamo immaginare chi saremmo senza di esso. Potete sentire quanta sofferenza c'è in tutto ciò? Il perdono non ha nulla a che vedere con la giustizia o col condonare azioni non rette o cambiare il comportamento dell'altra persona.

Perdoniamo perché fa troppo male non farlo. Perdoniamo per essere liberi. Il perdono è un atto del cuore, non della mente. t il movimento di lasciar andare il dolore e il. risentimento che abbiamo trattenuto troppo a lungo. Quando iniziamo a praticare, possiamo sentire più rabbia che gentilezza, sentirci più chiusi che aperti. Il perdono non è un mezzo per sopprimere queste emozioni; anzi le facilita. Dà spazio a questi forti sentimenti di odio, paura e giudizio. Poi cominciamo a misurarci attivamente con la nostra sofferenza, esplorando con consapevolezza e gentilezza quegli aspetti a cui ci siamo chiusi. Il perdono ci permette di far incontrare la sofferenza con la compassione. Richiede tempo e pratica: il perdono non può essere forzato.

Ma per assistere qualcuno nel territorio del perdono dovete prima fare i vostri compiti; dovete provare la medita­zione voi stessi prima di condividerla con altri. Nel fare que­sta meditazione, è importante che noi ci costruiamo la nostra capacità di perdonare gradualmente. Quindi non comincia­te con la più grave delle offese ricevute. Siate clementi, non forzate.

La meditazione del perdono ha tre fasi. Primo, chiediamo perdono a coloro che potremmo avere ferito. Secondo, offriamo perdono a coloro verso cui nutriamo risentimento. Terzo, perdoniamo noi stessi. Vorrei ora provare a fare que­sta pratica insieme.

Trovate una posizione comoda.

Lasciate che si chiudano gli occhi e portate l'attenzione all'area intorno al cuore. Ora prendetevi qualche istante per riflettere sul significato del perdono: compassione, tenerez­za, lasciar andare vecchie ferite.

Per prima cosa, richiamate alla mente qualcuno che potreste aver ferito. Cercate di rendere presente questa per­sona, immaginatela mentalmente, entrate in contatto con il sentimento che avete nel cuore nei suoi confronti. Invitatela dentro di voi, chiamatela per nome.

"Per qualsiasi cosa io abbia fatto che possa averti ferito con pensieri, parole o azioni, ti chiedo perdono"

Osservate ogni idea che sorge nella mente per bloccare il perdono. Lasciatele venire e andare.

"Ti chiedo perdono"

Ora lasciate andare questa persona per la sua strada, e sentite il vostro cuore che è stato toccato dalla possibilità del perdono, dalla possibilità di rilassarsi, di ammorbidirsi, di arrendersi.

Ora richiamate nella mente una persona che vi ha ferito, vedete se riuscite a immaginarla con gli occhi della mente, a sentirla nel cuore, a chiamarla per nome.

"Per ciò che hai fatto e che mi ha ferito con parole o azio­ni, io ti perdono".

Solo per un attimo provate a sentire cosa provate a tocca­re con pietà questo sentimento a lungo trattenuto.

"Ti offro il mio perdono".

Lasciate ora che questa persona vada per la sua strada, toccata dalla possibilità del perdono, dalla possibilità di rilassarsi, di ammorbidirsi, di arrendersi.

Ora chiamate voi stessi nel vostro cuore, immaginatevi mentalmente e sentite una sensazione di voi stessi nel cuore.

"Per qualunque cosa io abbia fatto che ti ha ferito con parole, pensieri o azioni, ti chiedo perdono. Ti offro il mio perdono".

Ammorbiditevi attorno a ogni resistenza che si manifesta, a ogni sensazione di inadeguatezza o di giudizio.

"Ti chiedo perdono. Ti offro il perdono".

A volte può essere più difficile perdonare noi stessi. Ma chi più di noi merita il nostro amore e la nostra compassione? Poi lasciate andare anche voi stessi, toccati dalla possibilità del perdono, ritornate al cuore e sentite che cosa c'è ora. Incontrate con gentilezza e compassione qualsiasi cosa si presenti.

Ammorbiditevi, rilassatevi, arrendetevi.

Alla fine della meditazione del perdono, potremmo provare molte emozioni contrastanti. Alcune volte potremmo sentirci aperti o come se un peso ci fosse stato tolto via dalle spalle. Oppure potremmo essere più consapevoli dei nostri giudizi o della nostra scarsa voglia di perdonare. Queste sono reazioni normali. Siate gentili con voi stessi. Lavorate con questa meditazioni un po' ogni giorno e ricordatevi che il perdono ha i suoi tempi.

Nei momenti più profondi di perdono non c'è più nessuno da perdonare. Riusciamo a capire che la sofferenza dell'altra persona è la nostra sofferenza. Nel Dhammapada, un testo buddhista, è scritto: 'L'odio non finisce mai con l'odio. Solo l'amore può farlo finire". Questa è una legge antica che non cambierà mai.

 

Da: "La rete di Indra buone notizie», anno V, n.3, 2001

Traduzione di Silvia Lombardi


 

Quando le cose diventano difficili

 

In giro si parla molto del morire in modo cosciente, ma non succede lo stesso per il modo cosciente di prendersi cura. Nel processo del morire il sostegno spirituale è altrettanto importante di un buon controllo del dolore, ma di rado questo tipo di sostegno viene portato in modo che sia significativo. Di conseguenza in troppi muoiono in difficoltà e nella paura.

Ma che cosa vuol dire dare questo sostegno? Direi che soprattutto significa portare testimonianza, stare con. Ossia non voltarsi dall'altra parte quando le cose diventano difficili, ma rimanere nel territorio del mistero e delle domande che non hanno risposta. A volte, ma questo dipende dalla tradizione della persona, significa chiamare il prete che darà l'ultimo sacramento o prendere uno scialle da preghiera o aiutare a scrivere una lettera di riconciliazione. Raramente vuol dire fare discussioni di ordine esistenziale o introdurre delle pratiche formali. Si tratta piuttosto di aiutare le persone a confrontarsi direttamente con ciò che sta succedendo, a lavorare con i paradossi con cui si stanno misurando. Non sottovalutiamolo.

L'impegno a restare consapevoli della propria mente, cuore, corpo, senza sottovalutare nessuna di queste parti di noi stessi, è la più essenziale di tutte le pratiche possibili nel mezzo di tali situazioni. Nel farlo contribuiamo a creare un'atmosfera calma e accettante per la persona che sta morendo. La pratica della consapevolezza diviene lo strumento per aiutare le persone ad esplorare la sofferenza e a modificare la relazione che hanno con essa nelle settimane e nei mesi che precedono la morte. Qualche volta la consapevolezza arriva come un laser proprio al cuore della sensazione, ma non sempre.

Nel nostro hospice, ad esempio, c'era un tale di nome Carl che mi ricordava mio padre, gli ero molto affezionato. Un giorno gli venne un dolore tremendo alla pancia, allora feci una meditazione guidata per aiutarlo ad esplorare la sensazione intorno alla zona del dolore.Ma la sofferenza era troppa e Carl non riusciva a mantenere l'attenzione in quel punto:Allora mísi le mie mani sulla sua pancia e gli dissi: " Carl, come ti senti se tengo la mano qui per un po'?", lui rispose: 'Ta bene, ma mi fa male". Spostai ancora un poco la mia mano

E gli chiesi di nuovo come andasse "Un po' meglio" rispose, a quel punto la spostai ancora più lontano e lui disse: "Oh, così va benissimo". Gli chiesi: "Potresti riposare Li per un po'?" , allora dalla sua bocca, non dalla mia, uscirono queste parole:"Riposa semplicemente nell'amore, risposa nell'amore".

Da quel giorno ogni volta che Carl sentiva troppo dolore spingeva la pompa della morfina per avere una dosa in più e ripeteva: "Riposare nell'amore, riposare nell'amore".

Era successo che sebbene non riuscisse a penetrare direttamente dentro la sensazione di doloro, poteva però trovare

46 uno spazio più largo, più aperto li intorno:la sua relazione col dolore si era dunque modificata. Quando la moglie lo venne a trovare il giorno dopo lui la guardò e le disse: "Semplicemente riposare nell'amore ".Queste parole erano diventate per lui una specie di mantra. Ecco dunque un modo di usare la pratica di consapevolezza:per esplorare il dolore o per modificare il rapporto che abbiamo con esso.

Quando una persona sta veramente male, nelle ultime ventiquattro ore, rallentate, muovetevi di meno, calmatevi, osservate il vostro respiro. Aiutate a creare un'atmosfera nella stanza che sia caratterizzata da ricettivita senza paura e dalla disponibilità ad accettare qualsiasi cosa sorga. Fate le cose semplici con grande attenzione. Sentite l'atmosfera nella stanza: sa di pace e di calma? E' invece caotica? C'è un senso di ordine che permetterà alla persona di cadere a pezzi (perché questo fa parte del processo del morire, questa specie di grande caos che si incontra) quando morirà?Guardate tutto ciò, preoccupatevi delle cose semplici, di qualsiasi cosa possa rendere la situazione più confortevole. Fate il minimo intervento possibile e osservate lo stato della vostra mente.

 

Da: "La rete di Indra buone notizie", anno V, n. 2, 2001

Tradotto da: Tricycle, Summer 2001


La mia esperienza

allo Zen Hospice di San Francisco

 

di Elisabeth Manning

 

Due anni fa, quando ho partecipato al seminario che Frank Ostaseski (allora direttore dello Zen Hospice Project) fece a Venezia, sapevo già che volevo andare a San Francisco, allo Zen Hospice, per fare il training per volontari sull'accompagnamento a chi sta per morire.

Durante l'esercizio in cui Frank fa passare velocemente tra i partecipanti delle fotografie di persone che sono state ricoverate all'hospice e ormai sono tutte già morte, a me alla fine era rimasta in mano la foto di un giovane uomo di colore molto arrabbiato. Ricordo che allora ebbi una sensazione di paura: ma io potrò mai affrontare una simile situazione? Quando poi ho dovuto riempire la domanda di ammissione al corso che era molto dettagliata sulle esperienze di lutto che ciascuno aveva vissuto, per me la domanda più difficile è stata quella che mi chiedeva di definire la mia identità culturale. Ho avuto un rifiuto verso questa domanda per diversi giorni... a mano a mano veniva fuori la mia paura: riuscirò mai a relazionarmi con persone che so essere senza casa, ammalati di AIDS, tossici, etc.?

Perché lo Zen Hospice nasce nel 1987 come tentativo di dare un indirizzo a chi viveva per strada non potendo di conseguenza accedere ai servizi pubblici. L'Hospice è una bellissima casa vittoriosa, chiamata 'The Guest House, con 5 stanze e altrettanti degenti. L'assistenza dal punto di vista medico e infermieristico è assicurata da una struttura che opera a domicilio (Hospice by the Bay), mentre i volontari fanno tutto quello che farebbe un familiare: la spesa, puliscono, cucinano e poi anche le cose più intime per il paziente, come il bagno, ecc. Tengono compagnia, anche quando questo significa guardare insieme il Grande Fratello! Ascoltano, o semplicemente stanno vicino, quando la persona non ha più energie per parlare.

Lo Zen Hospice fornisce i volontari per un posto molto diverso: nel 1998 un medico del Laguna Hospital, un enorme ospedale geriatrico di 1.100 posti, ha voluto creare lì un hospice. t stato così attrezzato un reparto per 28 pazienti, 14 donne e 14 uomini, che riflettono in pieno la popolazione di San Francisco.

Lavorandoci ho conosciuto persone di ogni etnia, fede e orientamento sessuale. Tutti e due i posti, anche se molto diversi dall'esterno, raggiungono in pieno l'obiettivo dell'hospice che è di aiutare la persona malata a vivere, con la migliore qualità possibile, quello che ancora le resta da vivere. La degenza non è gratuita, ma ho potuto constatare che in entrambi i posti ciascuno veniva accettato in base alle esigenze di salute e non per la possibilità di pagare.

In 30 circa abbiamo partecipato al training che è durato circa 40 ore: uomini, donne, giovani, meno giovani, di otto diverse nazionalità e con ogni tipo di impiego. Quando la prima sera ci è stato chiesto di presentarci e di spiegare brevemente la nostra motivazione, sono stati un medico e due infermieri quelli che mi hanno colpito di più, dicendo che volevano riscoprire la motivazione che li aveva portati a fare il lavoro che avevano scelto.

La prima parte del corso riguardava soprattutto il rapporto con la nostra sofferenza, con i lutti nelle nostre vite, il dolore della perdita. Dopo ogni esercizio che facevamo in gruppo, ci sedevamo e meditavamo anche per pochi minuti prima di passare alla condivisione. E nello stesso modo si aprivano e terminavano tutti gli incontri. E questo aiutava molto a sentirsi centrati, senza sovrappiù di emozioni da scaricare, riuscendo a giungere all'essenziale dell'esperienza appena provata. Poi, a poco a poco, l'accento si spostava sul servizio agli altri. C'è stato un incontro con due pazienti della Guest House: Miriam, colta, brillante e senza casa e Clint, molto timido, invece. C'erano anche i familiari e gli amici di tre persone che erano morte lì quell'anno. t stato molto utile sentire che cosa li aveva aiutati mentre i loro cari stavano morendo, ma ancora più utile è stato ascoltare che cosa non li aveva aiutati.

Ci sono stati insegnati molti aspetti estremamente pratici come ad esempio imboccare una persona. Si provava direttamente, a coppie, imboccandosi a turno, bendati, immaginando di essere una persona cieca e non più in grado di parlare. Il cibo è molto importante per chi sta male ed è stato molto utile aver provato prima su noi stessi. Così come estremamente utile si è rivelato l'aver provato prima tra di noi come si fa il bagno a letto. 0 come mettere il pannolone, come toccare il malato, come girarlo nel letto, ecc.

Abbiamo fatto anche dei «giochi di ruolo" per esplorare insieme le varie situazioni difficili in cui ci saremmo potuti trovare. Ma al di là dell'ottimo contenuto del corso, per me l'aiuto più grande è stato il sentirmi tenuta, accettata e non giudicata dagli insegnanti, Frank, Eric, Zuza e Brad e da tutto il resto del gruppo. C'era un clima di profonda fiducia reciproca che ho trovato estremamente arricchente.

Terminato il corso sono rimasta due mesi a lavorare in entrambe le strutture. A ogni cambio turno, prima del passaggio di consegne, ci incontravamo tutti insieme per una seduta di meditazione. E questo ha aiutato davvero molto la mia possibilità di essere presente durante le ore che stavo li.

Ancora oggi quando rifletto su quel periodo passato a San Francisco, a me sembra che sia stato tutto come un ritiro, un ritiro senza dubbio aperto a molti stimoli che non ci sono in un ritiro normale. Prima di partire avevo trascorso un mese di ritiro intensivo, ma penso che propio il tipo di lavoro che svolgevo, le continue sedute di meditazione hanno fatto sì che avessi una grande facilità ad essere presente, e non solo dentro l'Hospice. E una condizione così difficilmente mi durava più di qualche giorno dopo un ritiro normale.

Durante il corso, Frank ci aveva detto che i pazienti sarebbero stati i nostri insegnanti e che avremmo visto in loro i nostri familiari più cari. Una signora cinese, una donna di 79 anni, l'età di mia madre, stava morendo e il marito Huan, sebbene fosse cinese, mi ricordava molto mio padre. Per lui era molto difficile accettare che la moglie stesse per lasciarlo e continuava a ripetere: "Ma siamo insieme da 56 anni ......

Il direttore con l'aiuto di un interprete ha cercato di fargli capire che la moglie stava per morire. Ero molto presa dalla sofferenza di quest'uomo, ero a fine turno e sono scesa per la riunione tra di noi. E li, durante la seduta di meditazione, ho visto chiaramente che in fondo il mio dolore nasceva dal sapere che avrei perso i miei genitori. Prima nella stanza non lo avevo visto. Il giorno successivo ero nella stanza sistemando dei fiori quando lui è arrivato e le ha presa la mano e insieme hanno pianto. Ho ispirato il loro dolore e ho espirato il mio amore e questo mi ha riconciliato molto con il sapere che un giorno perderò i miei genitori.

Verso la fine del mio periodo a San Francisco, c'era una donna di colore sui 70 anni di nome Betty a cui ero molto affezionata. Stava morendo e io ero andata a farle compagnia una domenica mattina. Aveva la fronte molto calda e io ho sempre le mani molto fredde e così a lei piaceva che la toccassi. Mi trovai a dirle: "Ti voglio bene, Betty", e nel momento che lo dicevo ho visto come in un flash la mia paura iniziale sul fatto che non sarei stata capace di stabilire un rapporto. Ho sorriso e le ho detto: «So che sembra incredibile, non ci conosciamo, ma e vero: ti voglio bene". Allora lei mi prese la testa e portò la mia fronte fino a toccare la sua e mi disse: "Grazie".

Direi che la cosa più grande che ho ricevuto da tutta questa esperienza è stata la maggiore possibilità che ho sentito di accettare me stessa, di amarmi per come sono per poter accettare e amare gli altri. E questo mi è rimasto.

Attualmente lavoro a Roma per la Fondazione Sue Ryder in quella che viene chiamata “assistenza al lutto”, cioè parlo con i familiari della persone ammalata che riceve l'assistenza domiciliare e il mio rapporto con loro prosegue anche dopo il lutto.

A volte mi è capitato di trovarmi in situazione in cui niente è come tu vorresti, quando per esempio nella stanza della persona che tu sai avere molto poco ancora da vivere c'è la televisione accesa, l'ex marito che litiga con la figlia, la vicina di casa un po' curiosa che è venuta a sentire. lo sedevo lì, sentivo la distanza tra me e tutti loro e mi sentivo male, poi però ho visto il mio giudizio e allora l'ho tolto, proprio come se fosse un cappotto e l'ho depositato. A quel punto è nata una bella conversazione con la donna ammalata: la televisione era sempre lì, anche l'ex marito e la vicina erano lì , ma tutto era molto differente.

L'esperienza che ho fatto a San Francisco mi aiuta enormemente: innanzitutto delle volte, anzi direi molto spesso, non c'è bisogno di far nulla. Semplicemente stare lì e raccogliere i racconti degli altri, sentire che cosa hanno da di re. Il solo fatto di essere lì. in qualche modo li aiuta perché sanno che tieni la loro sofferenza. E' un lavoro molto speciale, ma, in fondo, molto normale.

Da: "La rete di Indra buone notizie, anno V, n 1, 2001


Le qualità della meditazione

nell'assistenza ai malati terminali

 

Intervista con Frank Ostaseski

 

D: Da alcuni anni dirigi lo Zen Hospice di San Francisco, un'esperienza iniziata nel 1987, Come sei arrivato a coniugare la meditazione e l'assistenza ai malati terminali? Che cosa ti ha portato a realizzare questo progetto?

R: Abbiamo iniziato con un'idea molto semplice: nella pratica della meditazione le persone sviluppano quella che io chiamerei la mente che ascolta, la capacità di ascoltare molto intimamente la propria esperienza. Mi è sembrato che ci fosse un accostamento naturale tra coloro che stanno imparando ad ascoltare e coloro che hanno bisogno di essere ascoltati almeno una volta nella loro vita. Abbiamo iniziato così, semplicemente.

Per accompagnare le persone che muoiono dobbiamo includere noi stessi nell'equazione. Dobbiamo investigare ed esplorare la nostra relazione con la situazione in atto in modo da poter essere di aiuto. Se non abbiamo fatto questo tipo di ricerca, allora le persone che stanno morendo sapranno che stiamo solo cercando di indovinare, mentre diciamo di capire.

Una delle esperienze basilari con cui entriamo in contatto attraverso la meditazione è quella dell'impermanenza, ossia realizzare che tutto cambia: ogni pensiero va e viene e così ogni relazione, ogni amore. Quando capiamo profondamente tutto questo dentro di noi, nel cuore, allora capiamo anche che la morte è nella natura di tutte le cose. E tenendola così vicino, sulla punta delle dita, cominciamo ad apprezzare il. fatto che la morte sia la nostra consigliera e che sia lì, vicino a noi, per aiutarci, per informarci. Ecco perché tutte le tradizioni spirituali che conosco ci ricordano in un modo o nell'altro di vivere accanto alla morte: per realizzare la precarietà della nostra vita e per accoglierne la preziosità, in modo da non perdere neppure un attimo.

Per me essere vicino ai morenti è la cosa più vitale che possa fare; essere con la morte è vivere pienamente la propria vita, entrare in contatto con la pienezza e la bellezza della vita. Per me è un lavoro di grande soddisfazione.

 

D: Al giorno d'oggi non si ha una grande familiarità con la morte, si tenta di nasconderla. Cosa rispondi a chi ti chiede perché investire così tanta energia, così tante risorse per assicurare un'assistenza medica ai malati terminali?

R: A volte io vedo il problema al contrario. Vedo cioè quanta energia viene sprecata per evitare questo. Negli Stati Uniti si investono molti soldi per gli ultimi sei mesi di vita delle persone, per cercare di allontanare il problema. Si allontanano gli anziani, si spendono milioni nell'industria dei cosmetici per apparire giovani, anche quando siamo già nella bara. E’ pazzesco! Sarebbe bello non vivere la vecchiaia come una decadenza e cambiare la pratica medica alla luce di come si deve vivere la vita! Assistere le persone che muoiono è un'esperienza incredibile, avere l'onore di accompagnare le persone in un momento così unico e vulnerabile della loro vita è il miglior rinnovamento per la mia vita. Poter aiutare in quel momento ed essere testimone mi insegna a vivere. Nella mia esperienza accompagnare una persona nella sua morte è un beneficio per entrambi: io la assisto nel momento della morte e lei mi insegna a vivere.

Vorrei aggiungere ancora qualcosa sulla medicina. Siamo portati a pensare che la morte sia un evento che riguarda la medicina, ma non è cosi; non e un evento che riguarda solamente i medici, perciò non possiamo affidare solo a loro questo compito. Morire è una questione relazionale: si tratta della relazione che si ha con se stessi, con le persone che si amano, con Dio o con Colui al quale noi pensiamo di affidare le nostre ultime speranze. Così chiunque si occupi di accompagnare un morente, deve facilitarne le relazioni ed entrare in una totalità. Bisogna offrire il meglio che la medicina può dare per quanto riguarda il. controllo dei sintomi, ma non si può guardare alla morte solo come un evento clinico.

Forse a questo punto è bene descrivere che cosa sia veramente l'hospice: si tratta di un metodo di cura per persone generalmente negli ultimi sei mesi di vita che enfatizza soprattutto le cure palliative focalizzandosi principalmente sul benessere del paziente, assicurandosi che ci si occupi della sua sofferenza e che i sintomi vengano curati. Ci si prende cura non solo della malattia, ma dell'uomo con le sue emozioni, dei rapporti con la sua famiglia, delle sue esigenze esistenziali e spirituali. Questo avviene lavorando in squadra con medici, infermieri, assistenti sociali, volontari e ministri di culto: cerchiamo tutti insieme di sostenere le persone e le loro famiglie. t molto importante sia il paziente sia la famiglia. Di solito interveniamo negli ultimi sei mesi di vita, ma a volte le persone si fermano solo qualche giorno, oppure più di un anno, dipende.

 

D: La presenza di un progetto come quello dello Zen Hospice influisce sull'atteggiamento delle persone, produce secondo te dei cambiamenti?

R: Spero che il progetto dello Zen Hospice possa avere un'influenza al di là delle persone che entrano in contatto diretto con il progetto. Credo che tutte le volte che la compassione si attiva ed entra nel mondo circola in cerchi concentrici. Più specificamente penso che a livello di educazione possiamo avere un forte impatto. Vorrei fare un esempio: a un seminario che abbiamo organizzato ha partecipato una dottoressa che ci ha raccontato che uno dei suoi compiti in ospedale era quello di girare nei reparti di notte, e verificare i decessi, dichiarare la morte dei pazienti. Ci raccontò che questo stava alimentando in lei un senso di cinismo e di esaurimento e si chiedeva se voleva ancora fare il medico. Quel lavoro le aveva fatto perdere il contatto con la sua parte umana e voleva smettere. Le consigliai di rapportarsi ai suoi antenati, al suo lignaggio di provenienza: i medici sono gli eredi degli sciamani, dei guaritori, dei filosofi greci, e le consigliai di riferirsi a loro per trovare un sostegno. Quando si avvicinava al letto del paziente, il suo camice era la veste cerimoniale, c'era un modo diverso di accostarsi alle persone. Apprezzò il consiglio, ma non decise niente. Dopo alcuni mesi da un altro amico venni a sapere che la donna era tornata nel gruppo di supporto e aveva spiegato che cosa le era successo e di come ora si prendeva cura dei pazienti: si avvicinava a loro portando con se una piccola scatola e, quando entrava nella stanza, apprestava un piccolo altare, accendeva una candela e poi ungeva con dell'olio la persona, la baciava augurando buon viaggio a chi se ne stava andando, rimanendo poi vicino alla famiglia. Questo è il modo in cui ora fa il suo lavoro.

Non sappiamo quale sarà il valore dei nostri atti nel futuro, ma spero che l'influenza dello Zen Hospice si farà sentire in un modo che neppure io conosco.

 

D: Vorremmo tornare al legame tra la meditazione, il buddhismo, e l'accompagnamento ai morenti.

R: Per essere in grado di curare, bisogna arrivare vicini al centro: è un lavoro che richiede grande intimità, non si può farlo restando distaccati. Perciò ci dobbiamo avvicinare molto. Questo significa che dobbiamo avvicinarci anche molto a noi stessi, cioè entrare in un territorio che ci può spaventare molto. La resistenza a entrarvi blocca la compassione e ci porta a sforzarci affinché la situazione sia diversa da quella che è. Bisogna voler entrare in questo territorio e ricercare insieme alle persone che soffrono e fare di questa ricerca un ponte di empatia per lavorare insieme. Ed è solo in questo modo che possiamo entrare in relazione. Negli Stati Uniti si usa l'espressione "calore professionale" per riferirsi all'atteggiamento dei medici che sembrano avere compassione, ma in realtà sono solo comprensivi. Così non si guarisce: bisogna essere vicini e rischiare di spezzarsi il cuore. La pratica della meditazione ci mostra come fare la ricerca, ci dà gli strumenti per esplorare la nostra vita interiore perché solo così riusciremo a capire che cosa può servire a un altro essere umano di fronte alla morte. Ecco perché secondo me esiste una relazione molto stretta tra la pratica della meditazione e il prendersi cura.

Nello Zen Hospice chiediamo a tutto il nostro staff e ai volontari di praticare, di fare la loro pratica spirituale di meditazione come ricerca personale. Lo chiediamo perché crediamo che possa aiutare a trovare un equilibrio e una maturità che sono essenziali se si vogliono incontrare i bisogni delle persone che muoiono. Per questo tipo di lavoro bisogna avere una certa dose di stabilità emotiva, così da non perdersi nel dramma del morente; bisogna essere presenti, fiduciosi e solidali; la pratica della meditazione ci aiuta a sviluppare queste qualità. Durante la meditazione, nello stare seduti, la vita interiore si manifesta anche nel suo dramma, ma tutto ciò che dobbiamo fare è riuscire a non lasciarci trascinare a destra e a sinistra dalla corrente. Quando sediamo vicino a un morente, ci troviamo di fronte la stessa situazione: c'è la paura, la sofferenza, la depressione. Però il praticante rimane calmo, senza perdersi nell'esperienza, così da poter essere veramente di aiuto e di assistenza al morente.

Questa è la qualità che cerchiamo di sviluppare.

 

D: In base alla tua esperienza ritieni che con la meditazione si possano assistere le persone non solo nel momento della morte, ma anche aiutarle nell'angoscia e nella paura che provano davanti al processo del morire?

R: Una delle cose in cui ci può aiutare la meditazione è proprio nello sviluppare la capacità di rimanere calmi nelle situazioni difficili; ci può aiutare ad analizzare la natura della sofferenza. Nella pratica Zen si dice che il non sapere è un'esperienza di intimità. Vuol dire che, quando non sappiamo, la mente è aperta e dobbiamo quindi restare molto vicini all'esperienza per permettere a essa di darci le informazioni. t come andare in una grotta buia di notte senza una luce: dobbiamo sentire e procedere lentamente lungo le pareti in modo che le circostanze ci mostrino cosa fare. Di solito, invece, siamo così pieni di nozioni, di tecniche, di conoscenze che tutto questo limita effettivamente la nostra cognizione su ciò che è possibile. L'immagine e ristretta a ciò che sappiamo e non ci permette di vivere nel mistero di ciò che non sappiamo. Personalmente sono molto più interessato al mistero che alla maestria [in inglese: mystery/mastery].

 

D: Possiamo chiederti come hai iniziato?

R: Tutti mi chiedono come e perché abbia iniziato a fare questo lavoro. La pratica buddhista ci insegna che sono molteplici le circostanze che portano alla nascita di una situazione. Non credo che nessuno di noi sappia veramente perché è arrivato a qualcosa. lo sono stato sicuramente influenzato dalla morte dei miei genitori, dal mio lavoro nei campi profughi in Centro America, dal mio studio con vari insegnanti; ma soprattutto credo che il motivo principale sia stato la mia sofferenza personale. Ho incontrato molto dolore e ho pensato che, forse, aiutando la sofferenza più grande degli altri, avrei evitato la mia. La pratica buddhista mi ha aiutato a non sfuggire la sofferenza, a starci insieme senza scappare lontano, a fermarmi e imparare ad ascoltare.

Quando questo accade, si può esplorare la propria vita, la sofferenza che tutti abbiamo, e naturalmente si comincia a capire che la sofferenza degli altri non è molto diversa dalla nostra. Da questo momento di comprensione nasce la compassione. E in modo molto naturale nel buio ci avviciniamo gli uni agli altri per darci la mano. Succede proprio così. E importante capire bene la parola compassione: signifíca soffrire con gli altri. La possiamo praticare solo se ci siamo avvicinati a noi stessi con una certa tenerezza. Quando Gesù è nel giardino di Getsemani dice ai suoi Apostoli: "Restate qui e aspettate". Non dice: "Portate via la mia sofferenza, fermate le circostanze, allontanate la mia morte". Dice solo: "Restate qui con me ed aspettate".

Ed è ciò che facciamo con le persone che muoiono, restando vicino a loro, presenti con loro in quel momento. Aprendo il nostro cuore alla loro sofferenza. Questa è la base del nostro lavoro. Quando cominciamo a vedere che la sofferenza degli altri è anche la nostra, allora anche il modo in cui ci occupiamo di loro vuol dire che è fondamentalmente cambiato: non sono più loro i sofferenti e noi i bravi ragazzi, ma siamo tutti nella stessa barca. Chi volete vicino al vostro letto? Qualcuno a pagamento o qualcuno che veramente apprezza l'esperienza e condivide con voi la vostra sofferenza? Il modo in cui tocchiamo, in cui giriamo il. paziente nel letto, o come gli mettiamo la mano sulla fronte, può cambiare quando c'è paura. Non vogliamo che la pratica buddhista sia separativa, ma che sia attiva nella nostra vita. Il nostro lavoro non consiste tanto nell'essere buddhisti, ma essere dei Buddha! Non importa avere la tonaca buddhista, ma arrivare direttamente vicino alla persona che soffre e incontrarla con onestà.

Tutti abbiamo la capacità di abbracciare la sofferenza di un altro, lo abbiamo fatto per centinaia di anni gli uni con gli altri, ma lo abbiamo dimenticato. Dobbiamo solo ricordarcene.

Siamo diventati così professionali nel prenderci cura di noi, che abbiamo paura; dobbiamo recuperare questa attività che ci fa incontrare gli altri. Occuparci dei morenti sta diventando un peso, un obbligo. Dobbiamo invece vederla come un'opportunità di risveglio. Penso che sia importante fare una distinzione tra curare e guarire. Anche quando non c'è più la speranza di curare la malattia, esiste sempre la possibilità di guarire lo spirito, di guarire la separazione, la relazione tra noi e gli altri. Alla fine, guarire significa rimuovere le astrazioni che ci tengono separati gli uni dagli altri e da noi stessi. Il modo in cui possiamo aiutare a guarire è prestare una grande attenzione, e come esseri umani abbiamo questa grande capacità. Questo è quello che possiamo fare gli uni per gli altri.

In America, nei negozi di roba usata, c'è una targhetta sui vestiti che dice: as is; vuol dire: “così com'è”. Non c'è garanzia, a volte c'è una macchia o un piccolo buco. Dovremmo girare con addosso delle piccole etichette con su scritte queste parole: ti prendo come sei. Il più bel regalo che possiamo fare a una persona che muore è accettare la sua esperienza totalmente, così come è, qualunque sia la sua faccia.

 

Da: '"La rete di Indra buone notizie" anno III, n. 3, 1999

 

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